Il mio più caro amico studiava all’Aquila, era stato costretto dal rettore, come tutti gli studenti universitari, a rimanere per le ultime cose. Non erano preoccupati più di tanto, le scosse si susseguivano da giorni, per telefono era un aggiornamento continuo: “Oggi una…ieri tre”.
Ascoltando la radio, la sera del 5 aprile, sento che c’è stata una forte scossa verso le 23:00, chiamo angosciata: “No no tranquilla- mi risponde- dormiamo fuori e domani torniamo a casa”.
Le 5:00, il telefono squilla e lo stomaco si contorce, “Dimmi solo che stai bene!” riesco a sussurrare.
Era in autostrada, in ciabatte, senza occhiali e la macchina fuori uso “Ci sono i morti” continuava a dire “E’ crollato tutto, ho guidato sui morti!” Poi cade la linea.
Panico. L’Italia si sveglia con le sconvolgenti immagini di una città distrutta, morte e macerie. Una City College la chiamano la BBC e CCN.
Del mio amico non ho notizie, resto incollata alla tv, il numero dei morti e dei feriti sale di ora in ora. Il popolo italiano si attiva, serve tutto dai generi alimentari al soccorso vero e proprio.
Ci sono anche Luciana ed Ilaria sotto le macerie. Vengono estratti corpi, qualcuno è vivo e fino a quando non le tirano fuori una piccola speranza c’è.
Sono le ultime studentesse ad essere estratte dalle macerie ma la speranza è persa, non ci sono più.
La sera arriva una chiamata: “ Io sono a casa”. Si piange di dolore e gioia.
L’Italia ha una ferita profonda: 309 morti, 2000 feriti e migliaia di sfollati.
I funerali sono solenni, bare bare bare e un dolore senza fine.
E poi la beffa, gli insulti a vittime e sfollati, si ride e si specula e dopo tre anni tutto è come il giorno dopo il terremoto.
Noi però non ridiamo, nemmeno un po’.
MPC