Il discorso del Sindaco Gennaro Giuliani
"Oggi siamo qui per festeggiare la ricorrenza del Primo Maggio, la Festa
dei Lavoratori che intende ricordare l’impegno del movimento sindacale e
i traguardi raggiunti in campo economico e sociale dai lavoratori.
A molti questa festa infastidisce: sono gli stessi che ritengono
anacronistico l’art.1 della nostra Costituzione, quello che recita
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul Lavoro”. Una colonna
portante del nostro ordinamento che recentemente è in stato di assedio:
sono sempre più numerosi coloro che si ascrivono tra i critici, gli
scettici o addirittura i nemici di questo principio irrinunciabile.
Personalmente vorrei piuttosto aggiungere qualche parola a questo
indecoroso dibattito: se scrivessimo “Fondata sul lavoro e sul buon
senso” forse eviteremmo di assistere al turpiloquio di rappresentanti
istituzionali che attaccano frontalmente il mondo del lavoro piuttosto
che impegnarsi nelle riforme necessarie a garantirne l’ossequio e la
corretta applicazione.
A sentire certuni, novelli cantori della modernissima civiltà dell’ozio,
il Primo Maggio dovrebbe scomparire, primo passo per cancellare i temi
del lavoro e del suo ruolo nella società contemporanea.
A loro dire, i processi di modernizzazione travolgente avrebbero
abolito, assieme alle catene di montaggio, le categorie sociali, per cui
oggi saremmo tutti ceti medi, indistinti, opulenti, meno inclini alla
comunità ed alla socialità che ha contraddistinto i nostri Padri, capaci
di sacrifici per noi oggi inimmaginabili.
Al contrario penso sia doveroso ricordare che è nel lavoro quotidiano di
mille intelligenze appassionate, unite dalla voglia di esserci,
concretamente, la nostra più concreta possibilità di costruire il
futuro.
Ed è proprio il lavoro quotidiano, stabile, quello che garantisce
dignità e sicurezza, serenità e capacità di guardare al futuro che,
oggi, deve confrontarsi con la flessibilità e la precarietà, due facce
della stessa medaglia, due parole che disturbano i nostri sonni: da
tempo assistiamo, più o meno inermi, più o meno pazienti, alla disputa
su come debba definirsi quella condizione lavorativa sospesa, generata
da quel complesso di norme che consente al sistema economico di
ricorrere al mercato del lavoro nella più totale libertà.
Da tempo ci hanno convinti che il nostro sistema economico o dispone di
lavoro flessibile o muore.
Abbiamo, oramai, interiorizzato e acquisito come elemento incontestabile
che un posto di lavoro stabile è un miraggio appannaggio di pochi, al
punto tale che abbiamo anche smesso di rivendicarlo.
Di questi tempi siamo costretti a difendere l’esistente!
Non più tardi di due giorni fa ho partecipato ad una trattativa
sindacale, nell’ambito della quale il Comune è soggetto committente, nel
corso della quale non si è potuto far altro che prendere atto che
l’obiettivo di mantenimento dell’esistente è il massimo che si possa
sperare di raggiungere: ho dovuto scegliere fra un miglioramento solo
ipotetico e assai improbabile oppure la stabilità dell’esistente, in
sostanza, scegliere fra il certo per l’incerto!
A questo siamo costretti, lottiamo quotidianamente non per il progresso,
non per le legittime aspirazioni al miglioramento, ma per il
mantenimento strenuo e feroce dell’esistente.
E anche solo mantenere l’esistente è un obiettivo difficilissimo, a
causa di una crisi che non accenna a finire, a causa di un governo
impegnato più sui tagli indiscriminati alla scuola, al welfare, agli
enti locali, che alla introduzione di misure di rilancio della
produzione e degli investimenti, pubblici e privati, o di politiche del
lavoro adeguate.
E intanto il dato della disoccupazione è il peggiore mai registrato dal
2002.
La crisi è uno dei tanti temi che domina l’agenda politica da due anni a
questa parte! C’era una volta la crisi, prima solo annunciata, poi solo
finanziaria (ricordate i mutui subprime rivenduti ai risparmiatori
inconsapevoli?), poi divenuta reale nella più totale impreparazione e
incredulità del Governo.
Il problema è che si ha l’impressione che il governo non abbia la minima
idea di come affrontare questa crisi o, peggio, di come evitare che la
ripresa, che da tempo ci dicono essere dietro l’angolo, passi sopra le
nostre teste senza lasciare benefici durevoli ai settori produttivi e al
mondo del lavoro.
Questi sono i temi sul tavolo dei sindacati e di chiunque abbia a cuore
le sorti di questo Paese.
Ma qualcuno potrà obiettare che oggi non c’è più bisogno che i
lavoratori tornino alla ribalta con prepotenza. Ma io sono convinto,
purtroppo, che non sia affatto finito il tempo delle manifestazioni di
piazza: i processi di globalizzazione non hanno esaurito il ruolo dei
sindacati, ma anzi ne richiedono l’impegno assiduo nella richiesta di
rispetto della vita, sui temi della sicurezza, oltre che salariali o di
concessione di diritti.
Assistiamo ad un mondo del lavoro che rivendica non solo protezioni
dallo stillicidio di infortuni, non solo un salario dignitoso che sia
qualcosa di più di una mancia, ma anche un ruolo nel luogo di lavoro e
nella società.
Perché sono loro che costruiscono quel tanto di ricchezza di cui gode il
Paese.
A quelli che ci vorrebbero dire che non è più tempo di festeggiare il
Primo Maggio perché stanno chiudendo anche le ultime catene di montaggio
a Mirafiori, voglio ricordare che esse rinascono – continuamente –
nelle cattedrali dei call center di Bari o di Palermo, ad esempio.
In un Paese sempre più precario e sempre meno attaccato ai propri
valori, senza i quali non riusciremo a sopravvivere alla
globalizzazione.
Ecco perché non si libereranno del Primo Maggio.
E nemmeno dei sindacati che – pur con difficoltà – cercano di
rappresentare quell’esercito del lavoro, vecchio e nuovo.
Oggi molti reparti sono nascosti dietro le ombre del lavoro nero e
clandestino, oppure sono resi invisibili da contratti individuali
piuttosto che collettivi.
No, finché esisterà il lavoro, non si libereranno del Primo Maggio e dei
suoi sindacati".
Gennaro Giuliani