di Berto Dragano
I sindacati scelsero il 1° Maggio come il giorno in cui il popolo operaio potesse far sentire la propria voce, far valere i propri diritti, la propria autonomia e la loro indipendenza.
Una conquista che oggi può sembrare dovuta, in realtà, è stata oggetto di lunghe trasformazioni, non solo politiche, ma anche culturali.
Il Primo Maggio è una giornata in cui ci si dovrebbe fermare e riflettere, una cerimonia, più che una festa. Ora la musica è cambiata e con essa le generazioni di giovani sdraiati in Piazza S. Giovanni, ma il bisogno di lavoro è ancora vivo ed urgente.
Questa giornata era una festa per noi ragazzi e ragazze, da condividere e vivere con gli adulti. Contadini, artigiani, commercianti, impiegati che provavano il piacere di essere presenti e protagonisti, di stare insieme in modo festoso con le bandiere, i canti popolari, i comizi, i paesi, le piazze in festa colorate di rosso.
Tutto cambia, i colori si sono sfumati, mischiati ad altri, ma sempre nel tentativo di celebrare oggi come ieri, il lavoro. Lavoro come diritto, riscatto, strumento di crescita individuale ed impegno civile, lavoro come libertà.
La riflessione un po’ amara tuttavia, riguarda proprio il lavoro, il lavoro che manca.
Pensionati, gente che ha perso il lavoro o che non lo trova, conoscenti o amici che non riescono più a fare la spesa né a vivere dignitosamente. Il lavoro senza sicurezza, il lavoro in nero, il lavoro discriminato e discriminante, il lavoro senza prospettive.
La crisi economica scava ferite profonde nel tessuto sociale della nostra città, della nostra regione, nell’Italia tutta, e se prima i poveri erano quasi esclusivamente extra-comunitari, ora sono sempre più spesso giovani, laureati, diplomati e provenienti dal ceto medio.
Ed in questa situazione è facile scivolare verso forme di nuove schiavitù, di nuove insicurezze, di ricatti contrattuali, rabbia e violenza.
L’aria che si respira è da troppo tempo pesante, intrisa d’insoddisfazione. Oramai è attiva una guerra fra un popolo sempre più povero e uno stato distante e sordo. In un paese che nella stragrande maggioranza diventa sempre più povero, mentre cresce una categoria di furbi, traffichini, maneggioni, corrotti.
Questo giorno di festa dovrebbe costituire l’occasione per rafforzare il confronto operativo con i diversi soggetti territoriali che hanno a cuore le sorti dell’economia territoriale e per mettere in campo tutte le opportunità e le risorse, che possono favorire la ripresa e l’occupazione.
Le riflessioni potrebbero essere molte. Le condizioni di lavoro hanno spinto le persone verso l’individualismo e il distacco dai sindacati e dalla politica.
La Costituzione recita bene nel suo primo articolo che la nostra repubblica è fondata sul lavoro e che questo è prioritario, solo che la realtà non vi corrisponde, anzi tutte le disposizioni legislative fanno di tutto per allontanare la pubblica attenzione da questa grave esigenza.
Il lavoro è un diritto e non una merce, e un diritto non monetizzabile né tanto meno ricattabile dal clientelismo politico. E se è un diritto tutti devono potervi accedere. Non si può chiamare civile una società finché non risolverà l’indegno problema della disoccupazione.
Il lavoro è un DIRITTO e quando questo diritto non solo sarà soddisfatto, ma il lavoratore sarà considerato per il valore che porta, allora si farà strada la vera FESTA.
Festa di sentirsi utile, considerato, compartecipe, vivo e degno.
E trovo interessante ripetere le frasi del Santo di Assisi che non potranno risarcire la perdita dei propri cari nei luoghi di lavoro, ma in questa giornata austera, quasi riflessiva, può dare una luce di speranza a tutti i lavoratori e a tutti coloro che lo cercano.
“Ed io lavoro con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio.”