Un po’ della sua vita e delle sue poesie
a cura di Salvatore Ritrovato
A completamento della riuscitissima serata culturale animata dal poeta Vincenzo Luciani ed organizzata dalla Libreria “Fahrenheit” (con la collaborazione sia pur minima dell’Associazione Culturale “Cambio rotta”), pubblichiamo quanto il curatore della iniziativa, Salvatore Ritrovato, ha gentilmente messo a disposizione del portale
Vincenzo Luciani è nato a Ischitella nel 1946, ed è vissuto in Umbria e a Torino (dove è stato anche consigliere comunale dal 1971 al 1975); nel 1975 si è trasferito a Roma, dove ha fondato l’associazione culturale e la rivista «Periferie», di cui è direttore Achille Serrao, e sempre con Serrao il Centro di documentazione della poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino”. Ha pubblicato le raccolte di versi Il paese e Torino (con una presentazione di Diego Novelli, 1984), Frutte crive e ammature (‘Frutti acerbi e maturi’, Ed. Cofine, Roma 2001), e Tor tre teste ed altre poesie (1968-2005), che include la precedente raccolta e l’ottima introduzione di Achille Serrao (Ed. Cofine, Roma 2005); il Vocabolario ischitellano (1994) e una guida storica di Ischitella, con appendice di proverbi, detti e soprannomi locali (1995). Suoi testi sono stati inclusi in Poesia dialettale del Gargano. Antologia minima, a cura di Cosma Siani, Ed. Cofine, Roma 1996, e in Torino & Roma: poeti e autori “periferici”, Ed. Cofine, Roma 2006 (pp. 83-95), con un saggio di Giuseppe Massara, Vincenzo Luciani: poesia delle distanza e delle due periferie (pp. 83-95).
Vincenzo Luciani è un poeta di pochi versi – pochi ma necessari – e di testi brevi, illuminanti, intensi. Specie rara, si può dire, ma non in estinzione, la sua poesia, in lingua e in dialetto garganico (di Ischitella), è fondata su una sorta di antica discrezione, animata da un pudore che manifesta con ritegno, senza narcisismo, una fortissima tensione interiore. Ne diamo un saggio con questa poesia in dialetto (in Frutte cirve e ammature), che rappresenta la versione in dialetto del testo che apriva la prima raccolta:
Se de te m’arrecorde!
Nun gnè avastate scutelà i scarpe
vestite a ffeste ce ne jie lundane;
forte int’u nase pòngeche dda terre.
Se de te m’arrecorde!
I tuppe nostre che nfrattane u mare,
i fichedinije, i sciumare siccate,
i macere e i vulive.
Se de te m’arrecorde!
Mò che ce ne vene
u addore d’a vennegne,
mò che graperte i fiche pènnene.
[Se di te mi ricordo – Non è bastato scuotere le scarpe / vestiti a festa andarcene lontano; / forte nel naso punge quella terra. / Se di te mi ricordo! / I nostri colli siepe aspra al mare, / fichidindia, torrenti disseccati, / gli ulivi e le macere. / Se di te mi ricordo! / Ora che torna / l’odore della vendemmia / ora che i fichi pendono aperti.]
Nei suoi libri, Luciani parla di sé, della sua infanzia, del suo distacco dal paese e dell’esperienza torinese, quindi dell’impatto con Roma e della memoria inossidabile (che diventa espressione dialettale di una coltivata semplicità) del paese. E come Ischitella, anche Torino e Roma prendono forma poetica di luoghi in cui si dipana il racconto composto di concisi e significativi episodi della vita di Luciani, che ha attraversato tutta la seconda metà del Novecento e giunge fino ai nostri giorni. L’emigrazione (rivissuta, in particolare, nella sezione Si va come alla guerra, di Il paese e Torino) non è solo uno sradicamento dal sud al nord, dalla campagna alla città, ma segna anche il passaggio dallo stato ancora mitico dell’infanzia e dell’adolescenza ischitellana al tempo acre e doloroso della nuova condizione sociale urbana. Il tempo passa nei corpi e nei sentimenti, come in questa poesia dedicata a un antico amore, incontrato un giorno sulla spiaggia, dopo molti anni:
Come, Maria, ti sei fatta grassa
Come, Maria, ti sei fatta grassa.
Si umilia nella rena il corpo sfatto
(bella eri: un’attrice!);
due figli alti ti danzano attorno.
Che ne è della coda di cavallo,
del lampo selvaggio degli occhi,
del tremolìo, se corri, dei seni nuovi?
Sul mare, quello dell’infanzia,
due ombre tozze allunga il sole.
Vergognosi e impacciati
Eva e Adamo
si videro così,
che avevano peccato.
In Il paese e Torino Luciani inserisce idealmente, senza enfasi, la sua storia nel racconto di quanti, fra gli anni Sessanta e Settanta, operano per migliorare lo stato delle cose, ma non dimentica mai il lato ‘umano’ della sua esperienza: perciò Torino diventa «anche una casa», vero che non è il paese, semmai il non-paese, eppure quando si tratta di lasciarlo ne sente nostalgia.
In fine lascio Torino
Consumata è l’ultima stagione.
Cielo nero, case cieche,
pioggia di gelidi spilli,
vento che spoglia la carne,
maledizioni rimasticate,
canzoni fermate in gola,
nessuno che beva un bicchiere di vino con te.
In fine lascio Torino.
E mi scopro ad amare l’austera
serenità dei palazzi,
le strade diritte,
i viali di alberi maestosi,
i portici discreti,
le nebbie lungo il fiume,
le lune sulla collina.
Lascio i compagni che lottarono con me,
i pochi amici veri,
la desolata periferia:
bambini che tengono per mano
bambini ancora più piccoli,
le donne sempre incinte
che fanno maestose le strade,
i cani ai pali dei lampioni,
la macchine scassate, i bulli a notte
sguaiati e padroni,
le liti alle case di via Artom:
piatti roti, vetri rotti,
pianti di bimbi che straziano.
Il trasferimento a Roma segna una tappa fondamentale nella vita di Luciani, che elegge, se così si può dire, la ‘periferia’ come condizione esistenziale della sua poesia. La nuova raccolta, Frutte cirve e ammature, viene alla luce solo nel 2001, dopo una lunga rimeditazione degli strumenti della lingua poetica, e inserisce senz’altro l’autore tra le schiere dei più originali poeti ‘neodialettali’ che hanno lasciato o stanno lasciando una profonda impronta nella poesia italiana della seconda metà del Novecento (da Pierro a Baldini, a Scataglini, a Loi, a Guerra, fino ai più giovani Nadiani e Zuccato). Scrive Serrao nell’introduzione:
Non c’è scrittore emigrato o ‘fuggitivo’ che non abbia fatto i conti con il distacco dalle origini (e dalla lingua delle origini, forse il più traumatico), cui connette quasi sempre il significato profondo della intera vicenda personale, umana e culturale. La piccola patria abbandonata finisce allora per divenire “ricordo”, per suggerire e sostenere prove di ricupero anche antropologico, oltre che linguistico, delle radici.
La caratteristica precipua del poeta neodialettale è nella sua ‘nostalgia’ non idealizzante ma critica del luogo di origine. Leggiamo ancora Serrao:
il passato non puntella più l’esistenza e il poeta è lì a registrare i segni del decorso inarrestabile e immedicabile del tempo: non è possibile raccontare di nuovo la favola antica.
L’allontanamento, fisico o psicologico, dal luogo di origine, è riscattato con la constatazione della impossibilità di fissare un ubi consistam che non sia la lingua, cioè il dialetto, che diventa in questo modo lingua poetica.
Frutte cirve e ammature confluisce qualche anno dopo la sua pubblicazione in Tor tre teste, raccolta ispirata – come dichiara il titolo – dal toponimo del quartiere in cui il poeta ora risiede, e ne costituisce la terza parte, dopo la prima (dedicata a Roma) e la seconda (sull’amore), scritte in lingua, venata però da qualche sperimentazione romanesca (nella prima parte). L’apparente eterogeneità (anche linguistica) di Tor tre teste non diminuisce però la straordinaria coerenza stilistica dell’insieme, scandita da un’ironia vivace e da una passione per la chiarezza delle parole.
Pubblicità
Vendo spazi di pubblicità
compro attimi di felicità.
“Sono Vincenzo Luciani
del giornale Abitare A.
È il giornale del quartiere…”
Lui nemmeno mi guarda
scruta carte (o fa finta?)
“Lo conosce…
È un mensile, informa
sui fatti e sui problemi della zona…
Lo conosce?”
Alza appena le ciglia affermativo.
“E lo trova – mi dica – interessante?”
“Pubblicità?”
“Anche. Non le interessa?
Perché? Permette
che le illustri i vantaggi
di un’inserzione sul giornale?”
“C’è crisi, non si fa
una lira. Ripassi
in un momento favorevole”.
Di nuovo sono sulla strada,
scruto insegne invitanti,
voli d’uccelli beneauguranti.
Quanti rifiuti, quante
porte chiuse, quanta
tristezza, quanta polvere
sulle scarpe, sul cuore
quanto costosa è la mia libertà.
Luciani guarda alla realtà non come a una riserva di simboli personali, ma come a un complesso di situazioni emblematiche, che mettono al centro l’uomo e il paesaggio urbano o naturale entro il quale questi si muove. Un paesaggio di periferia, non indifferente o ostile, ma neanche ingenuamente familiare. Non la Roma barocca o classica, dunque, ma quella di Tor Tre Teste; non il Gargano turistico e religioso, ma quello intimo e vero della memoria. Per concludere, propongo le tre poesie che ho scelto, insieme a Sergio D’Amaro e Enrico Fraccacreta, per Cartoline dal Gargano (Levante Editore, Bari 2006):
Pe nu jardine
Pe nu jardine de lumune,
nu jardine de lumune a Masckarizze
dd’anime me venesse.
Pe na turrette
pe na turrette sckuffulate
a Masckarizze,
creature, hé chiante cume n’arraggiate.
Pe ddu mare celestre che ce ammucce
e affacce ndrete i cannezzate e i làvere
tanne ji vuleva luccà, ma u lucche
nganne jè rumaste
e u chiante ngorpe.
Chiù nun ce venne e accatte ddu jardine
ddu jardine de cumune a Masckarizze.
[Per un giardino. Per un giardino di limoni / un giardino di limoni a Mascarizzo / l’anima venderei. / Per una torricella / per una torricella diroccata / a Mascarizzo, / bambino, ho pianto come un pazzo. / Per quel mare celeste che si cela / e spunta dietro cannicciate e lauri / allora io volevo gridare ma il grido / in gola è rimasto / e il pianto in corpo. / Più non si vende e compra quel giardino / quel giardino di limoni a Mascarizzo.]
Cecasole
Ji anghiane sule sule sta vie nfucate
mmeze i vulive p’i fronne aggricciate
fise a lu voske d’i zappine chjiecate.
Daddà Rode ce vede e Sante Menaje
e de Pesquice a petra arracamate.
U sole ncoce i prete e i addore spreme
de stinge, de jenestre e rosemarine:
Scketedde lundane pare stenerecate
nu cane bbianghe sope i tuppe che ddorme.
’N pace pe tutte u munne ji mò resciate,
a u friscke de nu zappine m’addecreje.
I voce d’i cristiane chiù nun sente,
qua nun arriva manghe nu sciame de cane,
nt’u mare, quant’jè granne, ji me sperde.
[Cecasole. Salgo solo solo la via infuocata / tra gli ulivi dalle foglie inaridite / fino al bosco dei pini curvati. / Di là si vede Rodi e San Menaio / e di Peschici la rupe ricamata. / Il sole arroventa le pietre e distilla gli aromi / di lentischi, ginestre e rosmarini: / Ischitella lontana è un cane bianco / disteso sopra i colli addormentato. / In pace con il mondo qua rifiato / e mi rinfranco al fresco di quel pino. / Le voci degli uomini più non sento, / qui non arriva il lamento di un cane, / nel mare, quanto è grande, io mi sperdo.]
Varane
U sànnele nire nire nun ci còtele,
quatte gaggiane vasce vasce vòlene,
duje pisce pe sciatà da dd’acque zòmbene,
na nùvele de musckidde ce mene facce
sucànnece u sedore fitte fitte
d’u piscatore che ale a vocche aperte
e fisse ammupulute dd’acqua morte:
tene a facce du foche oje u sole.
[Varano. Un sandalo nerissimo non dondola / quattro gabbiani basso basso volano, / due pesci a rifiatar dall’acqua saltano, / i moscerini a nuvole s’avventano / accaniti succhiandosi il sudore / d’un pescatore che forte sbadiglia / e inebetito fissa l’acqua morta: / ha la faccia del fuoco oggi il sole.]
Salvatore Ritrovato