Il racconto di Luigi Carriera, superstite dell’Heysel
29 maggio 1985, una data che cambiò il calcio. Una notte che doveva essere di festa per l’Italia bianconera. Una notte che invece fu di sangue e morte.
Stadio Heysel di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus del Trap e di Platini, e i campioni in carica del Liverpool. Una partita attesa come non mai dai tifosi bianconeri, dopo la delusione di Atene di due anni prima. Come allora furono tanti i tifosi partiti da tutto lo stivale per il Belgio, per assistere alla finalissima della loro squadra del cuore. Tra questi Luigi Carriera, infermiere professionale della Casa Sollievo della Sofferenza, 35 anni, sposato con due bambini in tenera età. C’era anche lui ad Atene, due anni prima. Quel 25 maggio 1983 un gol di Magath fece sprofondare nella disperazione sportiva i tifosi della Vecchia Signora. Gino, tifosissimo bianconero fin da bambino, decide di tornare a vedere la sua Juventus in finale, nella speranza di un esito diverso. Parte da San Giovanni Rotondo assieme ad un collega, Andrea, anche lui sangiovannese e tifoso bianconero, che, come molti italiani, aveva un fratello emigrato in Belgio, che è riuscito ad avere dei biglietti per la finale del 29 maggio.
Quel giorno Gino, assieme al compagno di avventura Andrea e altri due parenti di quest’ultimo, partono così in auto da Frameries, paesino poco distante da Mons, in direzione Bruxelles.
Arrivati nei pressi dello stadio Heysel parcheggiano l’auto e si incamminano verso lo stadio. Qui inizia il racconto di Gino:
“Arrivati nei pressi dello stadio, avevo come la percezione che qualcosa sarebbe andato storto. La zona antistante l’Heysel era già un tappeto di bottiglie di birra e di alcool. I tifosi del Liverpool erano già su di giri, per non dire ubriachi. Attorno alle 18 decidiamo di entrare allo stadio. Ci fecero entrare in una piccola porticina assieme ai tifosi del Liverpool. Entrati in curva ci siamo accorti di essere nel settore dei tifosi Reds, per questo scavalchiamo la rete, definita da molti come la rete del ‘pollaio’ e entriamo nel famigerato settore Z della curva, riservata ai tifosi bianconeri. Un settore non destinato alle tifoserie organizzate. In gran parte erano famiglie, ragazzi, donne e bambini. Gente semplice, magari molti emigrati italiani in Belgio che volevano semplicemente seguire e tifare la loro squadra del cuore.
Noi quattro ci posizioniamo giusto al centro del settore. Eravamo appiccicati l’un l’altro come sardine, non avevo nemmeno lo spazio per poter prendere le sigarette dal taschino. Lo stadio era un colabrodo, bastava battere un po’ col piede sulle gradinate per far staccare pietre e sassi. Un impianto totalmente inadeguato per un evento del genere. La sicurezza inesistente, solo qualche agente della gendarmeria a cavallo. Due anni prima ad Atene tutto funzionò alla perfezione. Già da quello che stavo vedendo avevo degli strani sentori. Ad un certo punto vediamo che i tifosi del Liverpool, posizionati a pochi metri da noi, divisi solo dalla retina del ‘pollaio’ danno fuoco ad una bandiera dell’Italia. Da quel momento capimmo che non sarebbe stata una tranquilla serata di sport. Gli hooligans sfondarono con disarmante facilità quella retina e si riversarono con tutta la loro furia sul nostro settore. Noi eravamo al centro della curva Z e fummo sommersi dall’ondata rossa. Io e i miei amici finimmo schiacciati da altre persone sotto la spinta degli inglesi. Tra me e me pensai ‘È la fine, qui moriamo tutti’. E il mio primo pensiero fu verso mia figlia che aveva solo due anni all’epoca. Ad un certo punto, quando già non riuscivo e respirare, qualcuno, non ricordo chi, mi prese dalle braccia e mi tirò fuori da quell’inferno di corpi ammassati gettandomi giù dalla gradinata. Mi ritrovai così nella confusione di nuovo in piedi. Scappai verso il campo e una volta sul prato vidi la curva ondeggiare come quando il vento soffia su un campo di grano. Scappai sul terreno di gioco ma fui fermato da un poliziotto: cercavo di spiegare, non sapevo la lingua e ad un certo punto svenni per la fatica. Il gendarme ricordo che chiamò i soccorsi ma ben presto mi risvegliai e stordito com’ero riuscii a trovare un’uscita. In pochi attimi mi ritrovai vivo e fuori dallo stadio. Non avevo però più notizie dei miei tre amici. Fuori dallo stadio, pieno di sangue e coi vestiti strappati, cercai un po’ di acqua. Una gentile signora mi diede una bella caraffa che bevvi in pochi secondi. Anche fuori stava succedendo di tutto: risse, ambulanze, gendarmerie in totale confusione. Insomma delle scene apocalittiche. Mi diressi verso la macchina per vedere se gli altri miei compagni fossero lì. Aspettai un altro po’ poi, non vedendoli arrivare, chiesi informazioni per andare alla stazione e prendere il treno per Mons. Una vecchietta vedendomi in difficoltà mi aiutò: mi fece telefonare a casa per avvisare i miei cari che ero vivo. Poi mi comprò il biglietto del treno per farmi arrivare a Mons. Alla stazione vidi in tv che la partita era iniziata nonostante tutto. Arrivato a Mons telefonai al casa del fratello di Andrea per farmi venire a prendere da Frameries da qualcuno. Una volta a casa del fratello di Andrea tutti mi chiesero che fine avessero fatto gli altri tre miei amici. Io raccontai la mia versione dicendo che non sapevo nulla di loro. A questo punto un parente del fratello di Andrea che sapeva la lingua mi disse ‘Gino, dobbiamo tornare a Bruxelles in auto, dobbiamo riportare gli altri tre a casa’. Stremato com’ero ci mettemmo in macchina alla volta di Bruxelles per cercare notizie su Andrea, il fratello e l’altro amico. Intanto la partita era finita. Ma cosa assai più importante è che il bilancio di quella notte folle era di 39 vittime.
Arrivammo nel punto dove avevamo lasciato la macchina parcheggiata e non trovammo né loro nè l’auto. Non sapevamo se l’avevano, rubata, rimossa, incendiata oppure era un segnale che l’avevano ripresa ed erano sani e salvi. Chiedemmo alla gendarmerie ma nulla. Lasciammo alla polizia anche la carta di identità di Andrea che avevo io in tasca per vedere se era tra le vittime di quel massacro. Fortunatamente no e dopo aver rilasciato delle dichiarazioni a caldo alla polizia e a qualche giornalista tornammo verso Frameries, a notte fonda ormai, nella speranza di ritrovarli a casa sani e salvi. E così fu: i tre si erano messi in salvo e ironia della sorte cercavano proprio me, temendo che potessi essere tra le vittime. Fu così che scoppiammo in un pianto e abbraccio liberatorio, pensando alla fortuna di essere ancora vivi.
Tornai a casa dopo due settimane perché oltre allo shock, non ero nelle condizioni di guidare e ritornare a San Giovanni. Feci degli esami al torace perché avevo difficoltà nella respirazione e dopo quindici giorni di riposo rientrai a casa a riabbracciare la mia famiglia. A distanza di 30 anni sono sempre più convinto che fu un bene giocare quelle partita. Altrimenti altro che 39 morti, avremmo assistito ad una vera e propria carneficina.
Da quel giorno non misi più piede in uno stadio di calcio. Addirittura nei primi giorni dopo il mio rientro, ricordo che c’erano le elezioni a San Giovanni: avevo paura a stare in mezzo alla gente. Mi mancava l’aria e mi sentivo soffocare nel ricordo di quella sera. Una sera che a distanza di 30 anni ho deciso di rivivere, per la prima volta, in questa mia testimonianza.
Dopo 30 anni da quella maledetta notte, la mia Juventus è di nuovo in una finale di Coppa di Campioni. Non so se sia un segno del destino. Dico solo che sarebbe bellissimo vincere la coppa e dedicarla a quelle 39 persone che in quella sera dell’85 volevano solamente vedere la propria squadra alzare la coppa al cielo”.
Grazie Gino per la tua toccante testimonianza.
Antonio Lo Vecchio