Erano tutti lì per “vedere Cecchino”
“Siamo qui per vedere Cecchino”. Con questa frase, ripetuta all’infinito, gli spettatori si sono accomodati in platea per assistere alla commedia teatrale di Francesco Paolo Fiorentino L‘utema vota in scena al Cinema Palladino dal primo al tre dicembre 2011. Qualcuno tra la folla, e non senza imbarazzo, ha bisbigliato “Ma chi è questo Cecchino, un attore? “. Una voce senza volto ha laconicamente risposto: “Cecchino era un Artista”.
Sono passati 25 anni dalla prematura scomparsa di Francesco Paolo Fiorentino, pittore commediografo e poeta di San Giovanni Rotondo, eppure quel filo rosso che lo legava ai suoi compaesani sembra non aver subito l’usura del tempo, quasi fosse immune al fisiologico logoramento dovuto alla mancanza. Non a caso il verbo usato dai presenti è vedere. Una singolare scelta semantica che racchiude un’interpretazione forse abusata, ma reale: le opere permettono all’artista che le ha create di vivere in eterno. E se la si giudica da quest’ottica non si può che dar ragione al pubblico: Cecchino era lì, sul quel palco, a trasformare, come sempre, le pieghe dell’animo umano in storie dal sapore conosciuto, ma non per questo meno accattivanti.
Ne L‘utema vota il tema centrale è la vecchiaia, argomento che nel mondo dello spettacolo, anche ad altissimi livelli, ha mietuto più vittime della censura. Non è difficile intuirne il motivo. Per antonomasia alla parola “vecchio” vengono associate tutta una serie di situazioni sgradevoli legate al decadimento pisco-fisico e questo diviene un terreno piuttosto ostico su cui muoversi sia per la commedia sia per il dramma. Il rischio, sempre dietro l’angolo, è quello di trasformare l’anziano in una ridicola macchietta nel primo caso o, nel secondo, di renderlo troppo greve e ieratico. Impossibile dire cosa sia peggio.
Eppure contro ogni personalissimo vaticinio la pièce portata sul palco dagli Artisti di Provincia, diretti da Lio Fiorentino, ha aggirato brillantemente l’ostacolo. Parte del merito va indubbiamente al commediografo (o Cecchino se preferite) che in fase di scrittura è riuscito a dare la giusta dose di solidità e lievità alla storia delineando il profilo di un uomo, Giovanni, tanto intenso quanto reale. Talmente reale e pulsante che si fatica a credere sia nato dalla penna di un cinquantenne che, per ovvie ragioni, non ha sperimentato i disagi della terza età. Ciononostante il suo personaggio non è il frutto di banali stereotipi, di facili scorciatoie, Giovanni non strizza l’occhio al pubblico, ma lo ammonisce urlando una verità graffiante, scomoda e allo stesso tempo universale. E così lo spettatore diventa attore, nei panni del figlio Domenico un uomo gretto e deprecabile, in una sorta di osmosi fra vita reale e teatro resa ancora più forte dalla cornice claustrofobica di una camera d’ospizio.
Ma non dobbiamo dimenticare che siamo di fronte ad una commedia in vernacolo e quindi è la comicità il mezzo su cui viaggiano le emozioni dei protagonisti, una comicità nel complesso garbata che regala più di una risata al pubblico in sala.
Per quanto concerne il cast attoriale, invece, è doveroso ricordare che sono tutti dilettanti, una caratteristica che, unita alla passione, si trasforma in pregio sul palcoscenico perché permette di assaporare un’autenticità che la perfezione delle accademie raramente sa offrire. Ragion per cui tutti promossi! Incluso il regista Lio Fiorentino che ha saputo portare in scena l’opera paterna con mestiere, curandone i particolari senza lasciarsi prendere da velleità avanguardiste, in un continuo tributo d’amore che vede la sua apoteosi in un finale commovente e inaspettato.
Erano tutti lì per “vedere Cecchino”. . .sono stati accontentati.
Francesca Piano, critico cinematografico