La semplice e commovente storia di un giovane calciatore della nostra provincia
“Mario accendi le luci!”. Le urla del mister danno il via all’allenamento, i suoi consigli sono ascoltati ma non rispettati. Il campo è bagnato, il freddo sembra non scalfire la voglia di correre, l’attesa del pallone è il motore che ci spinge ad essere lì in quel momento.
Schierati con casacche diverse, si capisce benissimo chi andrà in panchina, ed io sono tra questi. L’allenamento scorre veloce sul campo bagnato; lo schema funziona bene il giovedì in partitella, la domenica ancora qualcuno l’aspetta. Una serie di tiri per migliorare la mira, serie di cross per una testa un po’ bassa.
I rigori li tirano in pochi solo coloro che son fortunati. La domenica arriva, pochi hanno dormito. Colazione veloce poi di corsa al campo. Prima di entrare nello spogliatoio do uno sguardo in tribuna, per la prima volta mio padre è venuto a vedere una mia partita ma io non sarò tra i protagonisti. ”Non poteva restarsene a casa” penso.
Ho vergogna e timore di deluderlo, gli avevo detto che ero un asse portante della squadra, ed invece…. Il mister rincuora tutti poi passa le maglie dall’uno all’undici, son tutti felici. A me tocca la 16 ”beh mi è andata meglio di Luca che è andato in tribuna”.
Resto chiuso nello spogliatoio mentre gli altri si riscaldano. L’arbitro viene a fare il riconoscimento e poi si va in campo. Io mi accomodo nella scomoda panchina con gli occhi bassi lontano dallo sguardo di mio padre. “Forza ragazzi, non si può sbagliare”, urla il mister.
Si corre e si tira; lo schema funziona ma non porta fortuna e tutti aspettiamo. L’arbitro fischia un calcio da fermo, si avvicinano in tre ma sappiamo chi tira. La barriera ribatte la difesa spazza. Si esce veloci per far fuorigioco, il bomber non segna almeno per ora. Il primo tempo finisce così com’era iniziato. Il mister rimprovera difesa ed attacco, poi mi guarda e dice “sei pronto?”. “Prontissimo mister”, gli rispondo.
Mi spiega come muovermi, la fase offensiva e quella difensiva, faccio finta di aver capito e scendo in campo. Ora si che posso guardare in tribuna, c’è mio padre che ride, le mie gambe tremano.
Tre tiri di seguito tutti parati dal portiere, ad un tratto, un’azione che sembrava finita, diventa magia. Il lancio era lungo, sembra facile preda dello stopper, che però sbaglia e liscia clamorosamente. “Non ci credo!”, pensai. Arrivo sul pallone e tiro più forte che posso; la palla si insacca all’incrocio dei pali.
Corro più forte che posso verso la tribuna, vorrei scavalcarla, per abbracciare mio padre, ma vengo soffocato dalla gioia dei miei compagni. La partita ed i 3 punti sono in tasca, basta difendere bene. Qualche anticipo bello, un rinvio sbilenco e l’arbitro fischia la fine della contesa. Tutti mi abbracciano, sento mio padre che dice ”quello è mio figlio”; mi faccio largo tra i miei compagni e per la prima volta abbraccio mio padre.
Io e mio padre ci siamo sempre voluti bene ma mai mi sono sentito così vicino a lui come in quel momento. A volte noi figli cerchiamo tra gli estranei l’affetto dimenticandoci che solo i genitori possono darti l’amore incondizionato di cui un ragazzo ha bisogno per crescere retto in una società di avvoltoi.
A due anni esatti da quella giornata, un tumore allo stomaco ha portato mio padre via dalla nostra vita ma non dal nostro cuore. Ogni volta che mi siedo in panchina guardo il cielo con la consapevolezza che mio padre mi guarda e che è fiero lo stesso di me… anche se ho la maglia numero 16.
da dilettantiinrete.it