“The tree of life”
Recensione
di Carmela Fabbricatore
Probabilmente, era dai tempi della Passione
Di Cristo di Mel Gibson che il panorama cinematografico mondiale non riceveva
uno scossone così duro, con pubblico e critica divisi in fazioni, l’un contro
l’altro armate. Eh sì, perché quando il cinema ci si mette, davvero è in grado
di suscitare dibattiti infiniti sulla vita, l’uomo e il mondo. Polemiche su
cosa è giusto e cosa no, su quel che si deve ritenere arte vera e su quel che
invece va declassato a semplice esercizio di stile.
E’ accaduto con l’ultima opera del
misterioso Terrence Malick, definito, non a torto, il J.D. Salinger del cinema,
per la sua ritrosia a mostrarsi al pubblico. Un tipo schivo, apparentemente
lontano dallo star system, che non si scomoda nemmeno per ritirare il premio
più prestigioso che possa esserci per un regista dei giorni nostri, ovvero la
palma d’oro di Cannes. Sotto la lente d’ingrandimento è The tree of life, l’albero della vita. Un film che si propone di
parlare dell’esistenza e che, di conseguenza, non può che risultare fortemente
ambizioso. L’ambizione nasce non tanto dal contenuto del film in sé, ma dal
modo in cui esso è presentato. Chiamando in causa l’universo intero, le sue
origini, l’uomo, la morte, Dio, l’aldilà. Fornendo un punto di vista del
tutto trascendente la realtà e le cose fisiche; che trova rifugio in
un’interpretazione della vita e dell’essere imperniata sull’immutabile, sull’assoluto
e sul razionale. Il che, in ottica filosofica, non può che essere rappresentato
da un’entità superiore, volgarmente chiamata Dio. Funzionali a questa visione
sono i continui passaggi tratti dalla Bibbia e i costanti riferimenti
all’aldilà, ma attenzione, sbaglieremmo a pensare che The tree of life sia un
film cattolico o cristiano. Il Dio a cui si fa riferimento può essere il dio di
qualsiasi religione, perché è visto come entità che dona la vita. E’ ciò che si
percepisce quando si osserva la perfezione degli elementi della natura, e non
vi si riesce a trovare altra spiegazione se non quella che esiste un essere
creatore superiore a tutto. Per sostenere queste sue tesi, Malick si lancia in
un lunghissimo excursus, volto a riproporre le origini della vita e
dell’universo; con immagini esteticamente perfette, pulite e limpide, di una
fattura che, va detto, non si vede spesso al cinema. E che lì per lì ti lascia
anche sbigottito e senza fiato. Fin qui tutto ok. Natura-Perfezione-Dio vanno
spontaneamente d’accordo tra di loro.
I problemi sorgono non appena si inizia a
mettere l’uomo al centro della faccenda. Già, perché il trait d’union tra “origine
del cosmo” e “origine dell’uomo”, risulta alquanto debole. Si dice che
l’obiettivo era quello di creare una sovrapposizione tra le due cose. Il
passaggio dalla natura perfetta all’uomo (essere imperfetto per eccellenza) è
meno logico di quello che si pensa, tanto più che non è l’essere umano in
quanto tale ad essere rappresentato, ma uno specifico soggetto, un individuo,
un personaggio. Il film ad un certo punto smette di essere filosofico e
comincia ad essere narrativo. Le due parti sono totalmente slegate tra di loro:
non basta un riferimento finale, non basta un filo d’erba o una testa infilata
sotto un’ acqua esteticamente perfetta per creare amalgama tra le due cose.
Sembra di guardare due film diversi, con intenti diversi. Il primo filosofico/naturalistico,
il secondo narrativo/intimista. Intimità che a dire il vero non si riesce a
raggiungere. C’è la storia di un uomo adulto sofferente, che ricerca nella sua
tumultuosa infanzia le ragioni della sua sofferenza, chiamiamola così,
esistenziale (per intenderci quella che ognuno di noi prova di fronte
all’impossibilità di rispondere a certe domande: chi siamo? Perché si nasce?
Perché si muore?). Infanzia che, dopotutto, non sembra poi essere così tragica
e dove i danni sembrano essere stati inflitti più da una madre ingenua,
infantile ed eccessivamente languida, che da un padre despota e ottuso. Ma al
di là di tutti i possibili risvolti narrativi, i personaggi sembrano fini a
loro stessi, non c’è partecipazione emotiva, non c’è pathos. Lo sguardo
oggettivo del naturalismo coinvolge anche l’esistenza umana. Il tono è freddo e
distaccato. Non si riesce a percepire l’amore, l’odio, la sofferenza. Le
inquadrature rivoluzionarie e sovversive non riescono a raggiungere il loro scopo.
Come si può pretendere di narrare un disagio interiore senza affrontare la
profondità della psiche e dell’inconscio? Ambizione a tutti i livelli, dunque.
Non ultima nei continui riferimenti -nemmeno tanto nascosti- a 2001: Odissea nello spazio, capolavoro
d’altri tempi, che condivide con The tree of life soltanto l’ambizione di
essere un film filosofeggiante. Con l’unica grande differenza che in 2001 si è
davvero riusciti a mettere in scena argomenti, anzi, entità astratte come il
tempo e la sua ciclicità, l’infinito, la nascita, la morte, la vita al di là
della Terra e dell’uomo. Il tutto attraverso inquadrature ed espedienti tecnici
significativi e rivoluzionari. Insomma, per fare certi film o ti chiami Kubrick
o il risultato non potrà che sfiorare la sufficienza. Chi ama l’estetica, la
perfezione maniacale dell’immagine cinematografica, la tecnica suprema che
giustifica qualsiasi contenuto, amerà alla follia The tree of life. Ai restanti, consiglierei di ripescare l’eterno
2001, per la cui comprensione non occorreranno fiumi di parole inutili, dal
momento che lì il sublime lo si percepisce intuitivamente e lo si tocca davvero
con mano. E, soprattutto, non ci si annoia.
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