“Pink
Subaru”
Recensione di Carmela Fabricatrore
Elzober è un modesto cuoco di un sushi bar
di Tel Aviv. Realizza il più grande desiderio della sua vita comprando l’automobile
dei suoi sogni, una Subaru Legacy. L’evento è così importante che si festeggia
e si danza per tutta la notte, insieme ad amici, parenti e vicini. Ma al
mattino l’automobile è scomparsa, qualcuno l’ha rubata.
Il triste avvenimento
causa profonda disperazione nell’animo di Elzober e innesca una serie di eventi
a catena che vedranno protagonisti familiari, amici, criminali, maghe e
ingegneri, tutti impegnati nel ritrovamento della Subaru rubata. Questa è la
semplice trama di Pink Subaru, frizzante commedia d’esordio del regista
giapponese Ogawa Kazuya.
Presentata nel 2009 al Torino Film
Festival, la pellicola (indipendente e autoprodotta) riesce ad approdare nelle
sale italiane solo quest’anno, sfidando coraggiosamente un circuito
distributivo sempre più schiavo del mercato.
Le vicende sono ambientate in Israele e sul
confine tra Israele e Palestina, ma non c’è nessun accenno a qualsivoglia guerra.
Piuttosto, la trama è un valido pretesto per concentrare l’attenzione
sull’interazione, il contrasto e la convivenza di culture diverse presenti in
uno stesso luogo, senza fare particolari analisi, ma semplicemente
soffermandosi con ironia e distacco sui tratti di ciascuna etnia.
Il Giappone ricopre in questo senso un
ruolo fondamentale: giapponese è la
Subaru, giapponese è la stravagante aiutante nel sushi bar di
Elzober, giapponese è un ingegnere sbarcato per lavoro in Palestina e che
incrocerà le strade dei protagonisti.
Dovremmo essere ormai abituati al Melting Pot
globale, eppure è inusuale trovare nel calderone etnico un accostamento tra due
culture così distanti tra loro, quali sono quella giapponese e quella mediorientale.
L’effetto che ne deriva è senza dubbio interessante, a tratti spiazzante, come
quando si sente risuonare tra le vie di Tel Aviv una versione giapponese di Que sera sera.
Seppure con qualche
ingenuità tipica della gran parte delle opere prime, il regista riesce a confezionare
un film piacevole, che, senza particolari ambizioni, guarda con libertà e
leggerezza a certi comportamenti propri di alcune categorie di persone,
cresciute nella semplicità e con pochi mezzi, abituate a lavorare sodo, per le
quali la realizzazione di se stessi coincide con l’acquisto di un’automobile o
con il concedersi una vacanza sul Mar Morto.
Il tutto senza fare la morale.