Recensione di Carmela Fabbricatore
Era il 4 gennaio del 1960 quando un gravissimo incidente stradale causò la morte di uno dei più illustri pensatori del secolo scorso, Albert Camus. Filosofo, scrittore, intellettuale: 47 anni, un premio Nobel ed un consistente bagaglio di opere letterarie all’attivo. Al momento dell’incidente Camus stava lavorando ad un romanzo intitolato Le premier homme.
Un lavoro autobiografico sfortunatamente destinato a rimanere incompiuto, ma che sarà ugualmente pubblicato nel 1994, grazie ad un sapiente e rispettoso lavoro di edizione ad opera della figlia Catherine.
Dopo anni di travagliata produzione cinematografica, esce nelle nostre sale Il primo uomo, un film firmato Gianni Amelio che si presenta come interessante tentativo di portare sul grande schermo quelle pagine così frammentate. Il fascino di Amelio per Camus parte da molto lontano, da vicende biografiche che in qualche modo lo accomunano allo scrittore franco algerino.
Entrambi orfani di padri caduti in guerra, hanno vissuto la loro infanzia in terre difficili (lo stesso Amelio ha affermato che l’Algeria coloniale di Camus non era poi così diversa dalla Calabria del dopoguerra), in cui la dolcezza di una madre trovava contraltare nello spietato autoritarismo di una nonna.
Il primo uomo si dirama in due direzioni: da un lato c’è la storia del Jacques Cormery (alter ego di Camus) maturo, pensatore chiamato a prendere posizione sulla questione dell’indipendenza algerina, dall’altro si narra del Cormery bimbo, la sua povertà, i suoi giochi, il suo legame con la scuola e gli studi. Amelio sta ben attento a non ridurre il tutto ad una mera rappresentazione di vicende biografiche, ma dà sapore ed intensità ad ogni momento soffermandosi su pochi essenziali elementi, necessari a dare alla figura del protagonista lo spessore che merita. E’ un indugiare progressivo sui volti, sui gesti simbolici, sugli sguardi che si perdono nella memoria passata e che, al contempo, riescono a svelare tutta la profondità dei protagonisti.
Nonostante non si rinunci a tracciare un profilo del Cormery intellettuale, è la caratterizzazione umana a prevalere. Il ritratto del Cormery maturo, consapevole e forte del suo modo di essere è convincente ed incisivo. Una figura solenne, che si contraddistingue per la sua quieta e apparente freddezza, pronta ad essere smentita da un abbraccio materno o da un nostalgico viaggio nelle terre natie.
Sicuramente meno densa la parte dedicata all’infanzia, per la quale si percepisce un cambio di stile narrativo, focalizzato più sugli eventi che sui pensieri. Una scelta condivisibile e sicuramente adatta alle esigenze del racconto che, però, rende il film meno potente di quello che avrebbe potuto essere.
Se si fosse dato più spazio alla solenne figura del Cormery maturo, il risultato finale sarebbe stato ancora più soddisfacente. Un doppiaggio fiacco rende l’edizione italiana del film molto più debole rispetto al suo potenziale artistico, un peccato se si pensa a quanto l’espressività dei dialoghi avrebbe potuto sorreggere anche quelle parti che all’apparenza potevano dare allo spettatore l’idea di stereotipo narrativo (e qui non può mancare il riferimento all’immagine del piccolo Cormery che all’insulto di un suo compagno di classe reagisce con fin troppo adulta misericordia).
Ad ogni modo, nonostante qualche piccola debolezza, Il primo uomo è sicuramente un’opera d’autore carica di rispetto e riverenza verso una delle figure culturalmente più imponenti del secolo scorso, il cui pensiero è quanto mai attuale e significativo.