IncontrarSi
A cura della dottoressa Pamela Longo
Psicologa e Psicoterapeuta
Negli ultimi anni e sempre più spesso, etichettata talvolta con il nome ansia, talvolta attacchi di panico, o ipocondria, giunge la richiesta d’aiuto da parte di adolescenti i quali si trovano a vivere uno stato di disagio e sofferenza, per la grossa fatica a vivere delle relazioni sociali intime e profonde.
Sempre più spesso, il vissuto di malessere trova poca possibilità di essere espresso attraverso parole che significhino la propria sofferenza, piuttosto “bene” o “male” sono le risposte più frequenti dinanzi alla domanda come stai. Anche bene e male assumono le caratteristiche di etichette, usate per comunicare l’universo emotivo inesprimibile ma totalizzante che induce a chiedere aiuto e a percepire la necessità di imparare a dare forma e parole a ciò che viene intimamente provato ma solo consapevolmente vissuto.
Nelle stanze di terapia, le richieste d’aiuto diventano sempre più complesse, nel senso di articolate, attraverso parole e riflessioni elaborate e pensate, questo perché dinanzi ad un potenziamento delle competenze cognitive e della capacità di raziocinio che ha certamente portato un miglioramento delle performance, vi è stato un “impoverimento” emotivo, verificatosi anche ad opera di adulti e istituzioni che hanno spesso considerato le emozioni sciocchezze in grado di intralciare il raggiungimento di scopi ed obiettivi “rilevanti”. Le domande d’aiuto, infatti, sono accompagnate da riflessioni, di spessore intellettuale e conoscitivo, dove la ragione conduce verso meandri che lasciano l’interlocutore spesso stupito e meravigliato dinanzi alla profondità della domanda stessa. Quando però è necessario abbandonare la sicurezza della ragione e vivere l’emotività del momento cominciano le prime difficoltà, dovute anche alla distanza che intercorre tra pensato e vissuto emotivo.
Ebbene sì, nonostante oggi nelle famiglie e a scuola si tenti di porre attenzione agli aspetti emotivi, le domande e le risposte con le quali si intrattengono delle relazioni, spesso si indirizzano verso il che si è fatto, come è andata, dove alla meglio ci si racconta attraverso ciò che si è realizzato, quale risultato si è ottenuto piuttosto che attraverso il come mi sono sentito, che emozione ho provato mentre vivevo o facevo quella determinata cosa o le sensazioni che mi hanno pervaso durante la giornata.
Credo che tale difficoltà risieda nella poco valorizzata abilità a muoversi entro spazi poco noti, e prevedibili come quelli emotivi, perché di emozioni ed emotività purtroppo non è possibile parlarne, per emozioni ed emotività pare non esservi lo spazio necessario, perché per stare sulle emozioni e sulla propria emotività dovremmo avere la possibilità di vivere consapevolmente ed esprimerci liberamente, ma tutto questo appare poco rassicurante pertanto è preferibile spostarsi sul fare e su ciò che è visibile e tangibile, sperimentando quella necessità di sicurezza, tanto necessaria nel nostro tempo.
Parlare delle proprie emozioni richiede agli interlocutori di entrare in un contatto profondo, dove le emozioni dell’uno entrano e generano una risonanza emotiva nell’altro, e se non si è predisposti, il timore di incontrarsi autenticamente è dietro l’angolo, perché questo genera spavento di fronte all’idea di perdere il controllo rispetto alle sicurezze del fare e delle cose note, dove il procedere quasi automatico non richiede un mettersi in gioco e discussione come nelle relazioni emotive, dove il con-tatto con l’altro può farci vivere esperienze di cui non conosciamo le istruzioni, ma richiede un vivere e viversi.
Incontrare l’Altro può molto spaventare, pertanto spesso le relazioni vengono vissute ad un livello più formale e superficiale, dove sebbene vi sia il bisogno di condividere esperienze, vissuti ed emozioni, sebbene vi sia il bisogno dello sguardo del nostro interlocutore o una pacca sulla spalla, ecco che, invece, il timore del giudizio prevarica, creando un sempre maggiore distanziamento tra sé e l’Altro significativo, altro che viene vissuto come potenzialmente “pericoloso” soprattutto se a lui doniamo ed apriamo una parte di noi. Per cui spesso siamo circondati da visi conosciuti, ma nel gruppo e nelle relazioni si è invece dei perfetti sconosciuti.
Vivere le relazioni implica e richiede la possibilità di viversi e riconoscere anzitutto dentro di sé le emozioni e i sentimenti che ci pervadono per poterci far guidare verso spazi poco noti ma ricchi di significato, solo vivendo consapevolmente cosa provo è possibile lasciare andare la necessità di esercitare il controllo sulle situazioni fuori di sé vivendo serenamente il dentro di sé.
Se posso vivere le emozioni posso raccontarle, se posso raccontarle non avrò necessariamente bisogno di agirle e se non avrò bisogno di agirle non avrò paura di vivere la gioia, la rabbia, la tristezza, la paura, ma potrò comunicarle e significarle nella relazione.
Parlare delle proprie emozioni consente la possibilità di parlare di sé e incontrare l’altro da sé senza il timore d’essere scoperto, in una relazione di autenticità e libertà.