“Un mattatore nato che bucava lo schermo”
Indro Montanelli riesce sempre a stupire. Per esempio con la sua pagella di liceale, zeppa d’insufficienze nei primi trimestri: «Fra me e il libro scolastico non c’è mai stata molta armonia», confessa con un sorriso a Enzo Biagi. Oppure quando racconta che lui, così severo e intransigente verso i giovani ribelli del Sessantotto, da tredicenne aveva anticipato la contestazione contro gli adulti, unendosi agli squadristi che nel 1922, alla vigilia della marcia su Roma, avevano posto sotto assedio la prefettura di Rieti, dove proprio in quel momento si trovava il preside Sestilio Montanelli, suo padre.
Non stupisce invece, ma certamente impressiona, la sua prodigiosa disinvoltura di mattatore televisivo, ben testimoniata dal materiale con cui il regista Nevio Casadio ha realizzato le otto puntate per Rai Sat Premium ora confluite in altrettanti Dvd, con presentazione di Aldo Grasso, in vendita ogni mercoledì con il Corriere della Sera (a 9.99 euro più il prezzo del quotidiano) da oggi fino al 10 giugno. Non sempre le grandi firme del giornalismo si trovano a proprio agio davanti alla telecamera: molti nel parlare perdono la fluidità che hanno per iscritto, altri rivelano una certa timidezza o comunque non riescono a bucare il video. Montanelli era per vocazione un uomo della carta stampata: «Se il quotidiano deve morire, allora io desidero morire insieme al quotidiano», dichiara all’inizio degli anni Settanta. Ed è nota la sua allergia per le nuove tecnologie, la sua fedeltà granitica alla vecchia macchina da scrivere Olivetti. Eppure sin dagli albori del piccolo schermo, nella seconda metà degli anni Cinquanta, si dimostra un brillante autore televisivo, fustigando i difetti nazionali degli italiani e poi portando sul piccolo schermo i suoi celeberrimi «Incontri» con vari personaggi della cultura.
Il vero spettacolo però è Montanelli protagonista in tv: il modo in cui traccia rapidi e spesso caustici ritratti, rievoca aneddoti esilaranti, incrocia i ferri con avversari rapidamente disarmati dal suo stile scintillante. Conta la sua voce profonda, conta l’eloquio limpido e ficcante, ma straordinario è soprattutto il modo modernissimo in cui usa il linguaggio del corpo. Per esempio gli occhi, profondi e dotati di un’espressività portentosa, capaci di passare in un attimo dalla bonaria ironia alla più implacabile severità. Oppure le mani in perenne movimento, rivolte ora verso se stesso ora verso gli interlocutori, con l’indice teso che scatta al momento giusto per enfatizzare i concetti più significativi del suo argomentare. Montanelli, insomma, non era «solo un giornalista», ma un comunicatore a tutto tondo: forse anche «uno stregone», come lo qualificò amichevolmente l’ex ministro degli Esteri fascista Dino Grandi (definizione ripresa da Sandro Gerbi e Raffaele Liucci per titolare il primo volume della loro biografia montanelliana edita da Einaudi). Solo così si spiega l’eccezionale tenuta del suo legame con i lettori: se si pensa alle tirature astronomiche dei suoi libri di storia, bisogna concludere che la grande maggioranza degli italiani conosce le vicende trascorse del proprio Paese attraverso le vivacissime ricostruzioni del giornalista di Fucecchio, spesso accusate di superficialità dagli accademici.
Erano attacchi cui Montanelli rispondeva per le rime, da par suo: la tendenza della cultura italiana, «sempre chiusa in se stessa», a disprezzare «chi scrive per il pubblico» gli appariva «il segno della fellonia più infame che si possa commettere». Il lettore è il suo unico padrone e servirne le esigenze è l’imperativo categorico della sua vocazione giornalistica. Comunque Indro rifuggiva dalle pose gladiatorie, oracolari, carismatiche. Anzi infieriva su chi vi si abbandonava: «Ogni italiano, gratta gratta, si vede a cavallo con l’elmo e gli speroni», dichiara sarcastico. Spicca piuttosto in lui la vena autocritica e autoironica, a volte condita da una buona dose di falsa modestia, che sul video risulta ancora più efficace. Montanelli non ha difficoltà a confessare il suo narcisismo, il suo amore per il successo. Oppure ad ammettere la propensione a cambiare idea, sempre però sulla scorta dell’esperienza: «Nel ’46 ho votato per la monarchia e adesso sono un elettore repubblicano, proprio del Partito repubblicano». E anche se nel 1971 dichiara di non aver «mai fatto male a nessuno» con i suoi articoli, tredici anni dopo riconosce di aver «chiesto scusa» in certi casi a persone finite nel mirino delle sue critiche.
Spietato con tanti mostri sacri (Ernest Hemingway «recitava la commedia», Alberto Moravia era disposto a «farsi spernacchiare» per non scontentare i sessantottini, Carlo Sforza colpiva per la sua «vanità»), sa esserlo spesse volte con se stesso: nel 1999, scottato dallo scacco della Voce, si definisce «un pessimo editore» e «un mediocre direttore». D’altronde questo spirito era l’altra faccia di un’innata signorilità cavalleresca, che l’Italia di oggi ha purtroppo quasi completamente smarrito. Sbalorditivo, per esempio, il duello televisivo tra Montanelli e Giorgio Bocca risalente al novembre 1977. Siamo negli anni di piombo, in un Paese percorso da feroci passioni ideologiche. Eppure il direttore del Giornale, più che mai in trincea (pochi mesi prima le Br gli avevano sparato), gioca di fioretto, disinnesca con un sorriso le accuse del suo interlocutore e lo mette nell’angolo manifestandogli la sua stima. A un certo punto il conduttore, Alberto Arbasino, si preoccupa addirittura perché la contesa non decolla e i due rivali si scambiano più complimenti che bordate. Pensando alle risse scomposte degli attuali salotti televisivi, prende uno struggente senso di nostalgia.
da: corriere.it