Recensione di Carmela Fabbricatore
E’ universalmente riconosciuto che David Cronenberg sia uno dei maggiori registi-artisti in circolazione sul pianeta. Il suo spessore poetico, la sua capacità di scandagliare i fondali della personalità e dell’anima, l’originale indole stilistica, hanno contribuito in maniera preponderante alla sua consacrazione all’olimpo degli dei del cinema.
Tuttavia, quando si è così talentuosi ed affermati, l’opinione dello spettatore viene contaminata dal demone dell’aspettativa, cosicché uscendo dalla sala dopo aver visto l’ultimo Cronenberg non si può fare a meno di non notare la delusione sui volti dei cinefili di vecchia data, che bramavano vedere sullo schermo qualcosa di più profondo e introspettivo. Qualcosa che portasse a galla il lato più oscuro e inaccessibile della natura umana come solo Cronenberg sa fare. E i presupposti c’erano tutti.
A dangerous method racconta i rapporti che intercorsero ad inizio ‘900 tra tre grandi della psicoanalisi: Freud, Jung e Sabina Spielrein. Proprio quest’ultima, interpretata da una sempre più matura Keira Knightely, è una delle figure centrali del racconto. Costretta alla reclusione in un istituto per via di nevrosi incontrollabili, sarà presa in cura da Jung, che riuscirà a guarirla grazie al metodo psicoanalitico enunciato dal suo maestro Freud.
La completa guarigione di Sabina non impedisce l’innescarsi di una torbida relazione con il suo medico curante, che nel frattempo sviluppa delle teorie psicoanalitiche notevolmente in contrasto con quelle di Freud. Le divergenze tra i due membri più autorevoli del movimento psicoanalitico, sfociano ben presto in una querelle che porterà ad una rottura tra Freud e Jung destinata a rimanere nella storia.
Poca analisi introspettiva, molta narrazione. Il racconto domina su tutto il resto. Probabilmente, quello di Cronenberg è anche una sorta di reverenziale rispetto nei confronti di figure che in maniera più o meno diretta hanno influenzato la sua poetica. Al di là di quello che poteva essere il film, non si può negare che il risultato finale sia comunque soddisfacente.
I ritmi sono gestiti in maniera ineccepibile, la sceneggiatura scivola via leggera e nessun dettaglio è lasciato al caso. C’è molta cura nelle ambientazioni e nei costumi, così come nella presentazione delle teorie psicoanalitiche dei tre protagonisti, per le quali non si è trascurata la fedeltà a quanto realmente accaduto storicamente. Ricostruzione storica, potrebbe essere questa la definizione più adatta per questo film. Con tutte le conseguenze che ne derivano, tra cui una gelida rappresentazione dei fatti che lascia poco spazio al coinvolgimento emotivo.
Il cast stellare non lascia delusi: oltre alla già citata Knightely, sono degni di nota anche Viggo Mortensen, che riesce a donare al suo Freud la gravità solenne imposta dal ruolo, e Micheal Fassbender (Jung), la cui inflessibilità espressiva si abbina alla perfezione al rigore metodologico manifestato dal suo personaggio.
Paradossalmente, il modo migliore per riuscire ad apprezzare A dangerous method è quello di essere completamente all’oscuro dei precendenti capolavori di Cronenberg. D’altra parte, è già da un po’ di tempo che il regista canadese sembra aver intrapreso strade più ortodosse e meno turbolente. In mancanza di aspettative, dunque, il film risulta gradevole e ben fatto.