Recensione di Carmela Fabbricatore
E’ stata una bella soddisfazione svegliarsi al mattino del 19 febbraio scorso e scoprire che l’ambìto Orso D’Oro – il primo premio del Festival Internazionale Del Cinema di Berlino – era nelle mani di due connazionali: Paolo e Vittorio Taviani.
Un riconoscimento prezioso, che di certo inorgoglisce il nostro Paese e ci rende fieri di essere italiani, almeno tanto quanto lo eravamo quando la nostra nazionale esultava per la vittoria mondiale, proprio in quella stessa città, ormai 6 anni orsono.
Il trionfo di Cesare deve morire è indice del fatto che il buon cinema in Italia si fa, esiste ed è vivo. E sarebbe sotto gli occhi di tutti, se non fosse costantemente eclissato da prodotti mediocri dalla dubbia validità (persino commerciale!).
Ma proviamo ad analizzare dettaglio cos’è che ha tanto affascinato la giuria della Berlinale.
Nel carcere romano di Rebibbia una compagnia teatrale di attori-detenuti mette in scena Giulio Cesare, il celebre dramma firmato William Shakespeare. I protagonisti sono detenuti veri, non si tratta di attori professionisti, ma, appunto, di detenuti di massima sicurezza, che periodicamente partecipano ai progetti teatrali in carcere, istituiti a scopi terapeutici e pedagogici. Nonostante l’impostazione documentaristica, il film non ha intenti moralistici o critici nei confronti delle pur sempre dure condizioni di vita nelle carceri. Al contrario, il mondo carcerario diventa quasi un pretesto per veicolare una serie di riflessioni sull’arte, il teatro, la vita, il dramma. C’è spazio anche per la politica e perché no, per la filosofia. Le penetranti battute shakespeariane, cariche di un imponente peso drammaturgico, si fanno portavoce di quei grandi temi sui quali l’uomo si pone domande fin dalla notte dei tempi e che riempiono le pagine dei libri di letteratura. La prigione diventa un grande palcoscenico, in bianco e nero, sul quale spesso si vedono solo due o tre personaggi, circondati da un vuoto quasi metafisico e, per questo, solenne.
Cesare deve morire gioca sulle sovrapposizioni, sul contrasto realtà-messinscena. La messinscena “ufficiale”, quella del dramma che gli attori si accingono ad interpretare, e quella della vita, inesorabile teatro dell’esistenza. La quotidianità del carcere si interseca alla rappresentazione della tragedia, in una combinazione di elementi ideali e reali che si presta a milleuno riflessioni e interpretazioni. Uscendo dalla sala si potrà pensare a quanto sia stato legittimo il tradimento di Bruto, si potrà dibattere sul ideali di libertà, democrazia, giustizia, o si potrà riflettere sull’effetto catartico del Teatro e sul valore supremo dell’Arte. Non è certo un film facile, l’ultima opera dei Taviani, probabilmente andrebbe rivisto più volte, anzi “riletto”, “sfogliato” scena per scena, cercando di cogliere gli infiniti spunti riflessivi che offre. Ma, forse, il primo grande passo, sarebbe recuperare il vero Giulio Cesare, compenetrarsi in esso ancor prima che nel film. E d’altra parte, Cesare deve morire è un omaggio all’arte stessa, ad un mondo che, da millenni, è propulsore della Storia e del pensiero umano.