Recensione di Carmela Fabbricatore
Non capita poi tanto spesso di avere un film festival quasi sotto casa. E seppure Bari non è proprio dietro l’angolo, non si può nemmeno dire che sia irraggiungibile quanto Cannes o Venezia. Irraggiungibile non in senso fisico, s’intende.
“Festival popolare” è la definizione che più spesso si sente attribuire il Bif&st, il giovanissimo Bari International Film Festival, che da circa 4 anni anima il marzo pugliese. Popolare perché il principale tratto distintivo del Bif&st è proprio la sua capacità di aprirsi al pubblico, quello che anima le sale cinematografiche dei week end, non quello patinato e intellettualmente aristocratico che si incontra per le strade del Lido.
Ovviamente il semplicistico confronto tra due realtà così lontane e diverse tra loro come Venezia e Bari non è di certo possibile: l’uno antico e consolidato, l’altro recente e in via di affermazione. Tuttavia, l’impostazione aperta del Bif&st, (prezzi irrisori per le proiezioni, la gratuità degli incontri con i più importanti personaggi del cinema mondiale, ecc) dà vita ad un ambiente culturale molto meno austero e, in qualche modo, meno provinciale rispetto a quanto si osserva in altri festival italiani.
Certo, le fragilità di sistema non mancano, ma l’auspicio è che anno dopo anno si possa preservare quello spirito contraddistinto dalla ferma volontà di spalancare le porte dell’arte e della cultura a tutti, aggirando gli elitarismi, cosa questa di cui il nostro Paese ha forte necessità.
L’edizione 2012 del Bif&st ha visto i giurati della categoria “Panorama internazionale” conferire il primo premio al film austriaco “Atmen” diretto da Karl Markovics, già conosciuto dagli amanti del serial tv “Il commissario Rex” per aver preso parte alle puntate della prime stagioni. Alla sua opera prima, Markovics si dimostra ben distante dalle tecniche narrative televisive confezionando un film che è un vera e propria perla, da mostrare a tutti e custodire con cura.
La tematica è abbastanza forte: un ragazzo diciottenne (Roman Kogler ) è rinchiuso in un carcere giovanile (che al contempo è anche riformatorio) per aver commesso, anni prima, l’omicidio di un suo coetaneo. Il suo percorso di recupero e reinserimento nella società è travagliato: Roman non riesce ad adattarsi a nessun lavoro che gli viene proposto, ogni cosa gli provoca disagio, smania e insofferenza nei confronti di chi lo circonda e verso le attività che svolge.
Unico momento in cui trova pace è il bagno giornaliero nella piscina del carcere. L’acqua gli trasmette quella tranquillità e quella libertà che la vita reale sembra negargli. A smuovere questa situazione di sofferenza sarà un incarico presso l’obitorio municipale di Vienna, fortemente voluto da Roman stesso. L’imbattersi casualmente in un cadavere di una donna che ha il suo stesso nome, spingerà Roman a indagare sul suo passato, sulla sua infanzia e, di converso, genererà un percorso di conoscenza di se stesso sempre più profondo.
Un film di formazione, in cui la trama scivola via senza increspature e senza momenti superflui. Ogni espediente tecnico risulta essere essenziale e funzionale alla storia, prosciugata di tutti i potenziali momenti melodrammatici e, per questo, profondamente vera e sincera. Atmen in tedesco significa respirare, respirare profondamente. E’ la sensazione di liberazione e di sollievo che si contrappone a quella asfissiante della claustrofobia.
C’è un parallelo tra la storia di Roman e il contrasto di sensazioni tra respiro libero e claustrofobia: una corrispondenza che il regista ha saputo armonicamente intrecciare con l’anima narrativa del film, grazie ad inquadrature silenziose ma profondamente simboliche. Amicizie sussurrate, innamoramenti sfiorati, una bontà d’animo da dissotterrare, un finale lieto ed educativo, rendono Atmen una fiaba sui generis, assolutamente meritevole del riconoscimento che gli è stato attribuito.