“Il paese dei magici girasoli che sfida il tempo e la memoria”
A 700 metri d’altitudine, con una vista che abbraccia tutto il tavoliere, sorge il più piccolo comune pugliese: Celle di San Vito.
Un vero presepe, custodito come un tesoro, tra boschi, campi di girasoli e sorgenti. Cento anime in inverno, quando le nevicate bloccano le strade e pieno di vita in estate, con i “migranti” che tornano a casa. Un’oasi di pace e tranquillità, dove sentire il vento parlare non è una semplice espressione poetica.
L’origine del suo nome deriva da un piccolo Cenobio, composto da tante cellette, in cui i frati offrivano riparo e protezione ai pellegrini diretti in Terra Santa. Verso l’anno 1100 abbandonarono il convento a causa delle continue depredazioni normanne.
Dopo un secolo, per opera del Papa Gregorio IX, nell’anno 1228 il convento risorse a nuova vita. Gregorio IX chiamò dalla Spagna i Cavalieri di Calatrava, che rimasero in Italia pochissimo tempo poiché nel 1284 furono richiamati in Spagna. Il convento a poco a poco, senza le annuali riparazioni, cadde in rovina e per sempre.
Verso la fine del 1200, Carlo D’Angiò, chiamato dal Papa in Italia per combattere contro la dominazione della casa Sveva, dopo la resa dei Saraceni a Lucera nell’agosto del 1269 tenta di collocare proprio in questa città gente fedelissima a lui ed alla sua causa. Egli tenta di portare dalla Francia non soltanto i “magistri” per l’edificazione della nuova cattedrale, ma anche un gruppo consistente di contadini e artigiani capaci di rivitalizzare la città e garantirla al suo dominio. Successivamente, andando via dalla città di Lucera a causa del clima umido, i coloni provenzali edificarono in zone di montagna più tranquille. Alcuni di loro andarono ad abitare nelle antiche celle del vecchio Cenobio e da queste e dal piccolo santuario dedicato a San Vito, il paese prese il nome di Celle di San Vito.
Il dialetto francoprovenzale di Celle San Vito e Faeto, orgogliosamente custodito e tramandato, è stato riconosciuto dall’UNESCO come minoranza linguistica da tutelare nel 1999. Da allora, autofinanziandosi, l’Amministrazione Comunale ha istituito lo Sportello Linguistico per la salvaguardia e la conservazione del patrimonio linguistico, grazie al quale vengono ogni anno pubblicati calendari, brochure, libri.
Lo stemma di Celle San Vito è raffigurato da una leonessa rivolta verso una luna crescente, con tre stelle d’oro e tre montagne, a rappresentare la rinascita delle tre comunità franco-provenzali (Celle San Vito, Faeto e Castelluccio Valmaggiore) dopo la tirannia baronale.
In data 26.10.1862, il Re d’Italia Vittorio Emanuele II, con Regio Decreto, denominava il comune in “Celle di San Vito”.
“Lungo la via Traiana-Egnathia si trova la caratteristica Chiesa di San Vito (Taverna Marchese Maresca) dove sorgeva anticamente un villaggio medievale. Fino a qualche anno fa, erano ancora in piedi parte del muro frontale, con la porta d’ingresso sormontata da un meraviglioso rosone in pietra, ma con il passare del tempo la costruzione è andata degradando. Oggi della chiesa sconsacrata restano solo pochi ruderi ma è stata dichiarata di notevole interesse storico-artistico. Qui presso un’antica fonte, ritenuta la sorgente del torrente Celone, si conserva un’epigrafe del 213 d.C. che ricorda il bosco dell’Aquilone e l’Imperatore Caracalla. Nella stessa zona doveva trovarsi la mutatio Aquilonis, punto di sosta per i viandanti che percorrevano la via Traiana. Si parla esplicitamente della chiesa di S. Vito (Ecclesia S. Viti) in una bolla di Papa Pasquale II del 10 nov. 1100, con la quale si affida la giurisdizione della Chiesa e della zona al vescovo di Troia. Nel periodo che va dal Secolo XV al XVIII la Chiesa di San Vito è il Santuario ufficiale della baronia di Faeto – Celle di San Vito e Castelluccio Valmaggiore. Fino al recente abbandono del sacro edificio, esso era un riferimento religioso e culturale per tutti i paesi del Suba-Appennino Dauno; sino alla fine degli anni cinquanta era custodito da un eremita.”
L’8 agosto c’è la tradizionale processione in onore di San Vito, San Modesto e Santa Crescenza che parte dalla Chiesa del paese di Santa Caterina fino all’ormai inesistente Santuario. Una volta arrivati, si celebra la messa all’aperto e sempre all’aperto , in mezzo ai campi, adagiati per terra mangiando tutto ciò che di buono si porta da casa e poi di nuovo giù verso Celle sempre a piedi.
In quest’angolo di terra ogni cosa porta i segni del passato, anche i volti dei nonnini che seduti sugli usci si godono gli ultimi raggi di sole ricordando un passato contadino, fatto di sacrifici, genuinità e gioia di vivere anche se con poco.
P.s. Per me è tornare a casa e ogni volta avere 10 anni nonostante lo scorrere del tempo. In questi luoghi ho imparato cosa vuol dire lavorare i campi, vivere in campagna, non avere il “lusso” della televisione…sicuramente uno stile di vita difficile per chi era costantemente a lavoro, ma per una bimbetta era bello poter giocare tra i girasoli e il grano maturo, scorrazzare nelle stradine senza il pericolo delle macchine in corsa. Felice di aver visto anche a distanza di tanti anni, mia figlia godere della stessa libertà e felicità toccata a me.
Infinitamente grazie
Maria Pia Carruozzi
(Un ringraziamento va a Silvano Tangi per le foto)
L’antico santuario di San Vito
Chiesa di Santa Caterina
Campanile innevato