di Salvatore Ritrovato
Il calcio è come un gioco: si può perdere o si può vincere. Ma il calcio professionista è qualcosa di più: da sempre è uno spettacolo (tanto è vero che il CIO ha indugiato parecchio prima di ammettere i giocatori professionisti, e infatti li ha ammessi quando gli ‘atleti’ olimpici sono diventati dei professionisti), ed è comunque uno sport, e nondimeno è una passione. Se passione significa sport, soldi significa spettacolo. Quanto costa investire su questo calcio? Calcio-spettacolo vuol dire trasformare lo stadio in un palcoscenico sul quale si esibiscono, pagati, tanti giovani e qualche star. Spesso le star vengono da lontano, cioè dall’estero: seducono i tifosi, entusiasmano i giornali, creano illusioni ecc. Se non funzionano, possono essere licenziati, e i giornali strombazzano nuovi nomi. Si potrebbe anche investire sui vivai, ma questo non fa notizia sui giornali. Vi immaginate un titolo: “Investiti 100 milioni di euro sui pulcini del Milan”? Suscita più scalpore “Messi pagato 100 milioni di euro dal Barcellona”. Per far crescere i vivai, occorre coinvolgere i bambini, i ragazzi e le loro famiglie, costruire le strutture, trovare degli istruttori, aspettare pazientemente, instillare un sano senso dello sport, e non si è sicuri che il lavoro renda.
Non è vero che l’acquisto di stranieri escluda l’investimento sui vivai. Negli anni Novanta il buon livello della nazionale risiedeva anche nei grandi investimenti nei vivai. Per anni abbiamo avuto una Nazionale Under 21 campione d’Europa. La generazione dei nati negli anni Sessanta non vince campionati ma non sfigura. La sua prima bella uscita è nel campionato europeo in Germania del 1988, e il suo ciclo dura da Vicini a Zoff, fino all’europeo in Olanda-Belgio (2000), terminato con un onorevole secondo posto, dietro la Francia campione del mondo. Con il campionato del mondo in Corea comincia forse un nuovo periodo. Le risorse per i vivai si affievoliscono, e le squadre di club puntano sulla massiccia presenza di stranieri .Per il 2006, Lippi punta giustamente sulla compattezza del gruppo, sull’affiatamento dei giocatori, senza rinunciare ad alcune individualità che possono risultare ‘decisive’. Nessuno voleva scommettere sulla sua squadra, ma Lippi fa un miracolo: dimostra al mondo di poter vincere con una squadra di “operai”. Passano gli anni e quel che preme, ormai, nei dibattiti, nei giornali, nei consigli di amministrazione, è la campagna acquisti di campioni stranieri e la compravendita dei diritti televisivi. Il calcio è spettacolo. La Comunità Europea liberalizza il numero di stranieri nelle squadre di club, e diventa possibile formare squadre formate interamente di giocatori stranieri (prima dell’Inter, venne il Chelsea). L’imperativo è allestire squadre spettacolari: vincere, possibilmente tutto. L’allenatore di una squadra nazionale, in queste condizioni, ha sempre meno scelte. I vecchi grandi gloriosi club che fornivano l’ossatura delle “nazionali” non hanno più vivai di grande interesse.
La scelta di non investire nei vivai è in qualche modo speculare alla scelta del governo di non investire sulla scuola e sull’università e la ricerca: vivai, scuola, università, ricerca, teatro, cinema ecc. costano troppo! I docenti sono malpagati e demotivati, si chiudono i corsi di laurea indipendentemente dal loro interesse culturale, gli investimenti sulla ricerca calano, i teatri non hanno più scuole di recitazione: ecco la “fuga dei cervelli”, una sorta di esportazione senza ritorno di capitale umano; è come regalare petrolio all’estero. Scuola e università sono come i vivai delle squadre di club che si riempiono di stranieri. Fra un po’ anche per la scuola e l’università dovremo importare docenti dall’estero. Lo facciamo già per gli infermieri.
Io trovo significativo che l’Inter abbia vinto tutto in Italia e in Europa, nell’anno in cui la nazionale italiana, campione del mondo in carica, è stata eliminata al primo turno, coronando (si fa per dire) una serie mai vista di brutte partite, fra amichevoli e impegni ufficiali, o perse o pareggiate dal 2009 al 2010. Investire sullo spettacolo può essere proficuo (per i consigli di amministrazione) e tonificante (per chi ha gusti facili), ma se la presenza di stranieri esclude la presenza di giovani promettenti dei vivai occorre chiedersi che cosa si intende per calcio e che cosa chiediamo al calcio, a dei giovani che giocano a pallone per passione e professione.
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Il calcio è lo specchio del nostro paese. Uno specchio in qualche punto concavo, in altri punti convesso, perciò da interpretare attentamente, e tuttavia in grado di restituirci i difetti e i problemi politico-sociali che stiamo attraversando, ove non sia propriamente capace di farci intravedere la lunga durata e la costanza di alcuni comportamenti antropologici dell’essere italiani.
L’eliminazione al primo turno è stata vissuta come una “vergogna”. Ma se confrontiamo i numeri della storia del campionato del mondo, può essere considerata come normale. Su 18 campionati del mondo finora disputati, la Nazionale italiana è giunta 8 volte fra le prime quattro, 1 volta è stata eliminata al terzo turno, 2 al secondo, 6 (compresa questa edizione) al primo, 1 volta ai gironi di qualificazione. Risultato complessivo di non poco prestigio, considerando anche che nelle 8 volte in cui la Nazionale si è piazzata fra le prime quattro, essa è arrivata 4 volte prima, 2 volte seconda, 1 volta terza e 1 quarta. Solo il Brasile ha fatto, in proporzione, meglio: 10 volte arrivata fra le prime quattro, di cui 5 volte prima, 2 volta seconda, 2 terza e 1 quarta. La Germania, giunta alla fase finale ben 11 volte, è arrivata 3 volte prima, 4 volte seconda, 3 volte terza e 1 volta quarta.
Ma analizziamo le nostre “vergognose” eliminazioni al primo turno. È percentualmente più facile incontrare nei gironi del primo turno squadre non blasonate, incognite in grado di sorprendere, una tantum, le squadre favorite sulla carta e di batterle, piuttosto che nei turni successivi. L’Italia eliminata al primo turno ha perso o giocato male partite decisive per la sua qualificazione con: Svezia (1950), Svizzera (1954), Cile (1962), Corea del Nord (1966), Haiti (1974), Slovacchia (2010). L’eliminazione nel girone con Svezia e Paraguay ha fin troppi alibi: la tragedia di Superga aveva indotto i giocatori a prendere la nave invece dell’aereo. Arrivarono in Uruguay poco allenati e stanchi. Senza contare l’eliminazione al secondo turno nel campionato del 2002, ad opera della Corea del Sud (e dell’arbitraggio scandaloso), e al terzo turno, nel campionato del 1998, ad opera della Francia, si può dire che è un rischio incontrare i “padroni di casa”, soprattutto quando si tratta di squadre modeste (tali erano la Svizzera e il Cile). Tanto è vero che in altre quattro occasioni abbiamo avuto ragione dei padroni di casa (Francia 1938, Messico 1970, Argentina 1978, Germania 2006), e in quelle occasioni siamo riusciti sempre a piazzarci fra le prime quattro.
Andiamo alle partite “vergognose”. Con Haiti la sofferta vittoria 3-1 non fu sufficiente a passare il turno per differenza reti con l’Argentina. La nazionale era alla frutta, e i rapporti all’interno dello spogliatoio piuttosto deteriorati. Dal 1974 al 2010, corrono ben 36 anni. La sconfitta con la Slovacchia non arriva per caso. È solo l’ultima di un lungo periodo negativo. La vera sorpresa fu la sconfitta 1-0 con la Corea del Nord, nel 1966, che però sorprese, in quel campionato, anche altre squadre, come il Portogallo del grande Eusebio (che eliminò anche il Brasile, campione del mondo, e arrivò terzo). È ovvio che, se si viene eliminati al primo turno, qualcosa nella squadra non funziona, e la mediocrità appare evidente più con le squadre piccole che con le grandi.
Per fare un confronto istruttivo, la Spagna si qualifica 12 volte alle fasi finali, solo 1 volta entra fra le prime quattro (Uruguay 1950), viene eliminata 4 volte al primo turno, 3 volte al secondo, 4 volte al terzo. In compenso le Furie Rosse figurano da molti anni ai primi posti della classifica FIFA per l’alto numero di vittorie in partite amichevoli e di qualificazioni (non decisive). È la riprova che non basta giocare bene e dare spettacolo per vincere.
Contro i benpensanti del calcio-spettacolo, in qualche modo omologati dall’industria mediatica, la vittoria ai mondiali – cioè la conquista di un trofeo cui partecipano squadre di tutto il mondo, in un determinato luogo e in una determinata stagione dell’anno – consta di molti elementi, nei quali la testa conta quanto i piedi, la fortuna non meno del talento, e comunque bisogna avere carattere, umiltà, e una certa autostima (che non significa superbia). Basti pensare al modo in cui il Brasile perse le due competizioni del 1938 (in semifinale, contro l’Italia, sicuri di vincere i brasiliani avevano già prenotato i biglietti del treno per Parigi e non fecero giocare il loro giocatore migliore per risparmiarlo per la finale!), del 1950 (come paese ospite, aveva previsto tutto, tranne la determinazione dell’Uruguay: due tiri in porta, due gol), o del 1982 (ancora contro l’Italia indomabile di Bearzot). D’altra parte, anche l’Italia perse il campionato del mondo in casa nel 1990 perché presumeva di superare la semifinale con l’Argentina, squadra opaca ma solida. Il fatto che non abbia sempre vinto la squadra che esprime il più bel gioco (si pensi ai Cechi favoriti nel 1934, agli Ungheresi favoriti nel 1954, agli Olandesi favoriti nel 1974, ai Francesi favoriti nel 2006) deve far riflettere. Vince non solo chi sa segnare (magari gol inutili) ma anche chi non sa prendere gol (decisivi). Il miglior attacco è la difesa, non è solo un proverbio. Se chi vince difendendosi è meno simpatico di chi vince attaccando, è solo una questione di gusti personali, i quali rimontano – come spesso prova, anche volgarmente, la stampa sportiva – a tare ereditarie nazionali. Si può anche dire, che, come negli scacchi non vince per forza il giocatore più simpatico, così nel calcio non è detto che debba vincere la squadra più “bella”, ovvero più “spettacolare”. Nonostante gli interessi che ruotano attorno, il calcio non è uno spettacolo, ma resta un gioco: cioè, l’interprete principale ingaggiato con fior di quattrini può essere licenziato dopo il primo atto; e la soubrette, entrata dalla porta di servizio, può strappare un applauso e diventare la star.
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Ieri il Brasile ha battuto il Cile 3-0. Una vittoria netta. Il Cile ce l’ha messa tutta, forse meritava un gol, ma il Brasile ha giocato in maniera impietosa. Piena di interisti, mi ha ricordato l’Inter di Mourinho: fa giocare gli altri, dà l’illusione all’avversario di prendere la partita in mano e poi insacca un gol con due passaggi. Spettacolare? Un giornalista ha detto che questo Brasile non è “pirotecnico”, ha vinto senza esaltare “come l’Italia di Bearzot”. Ecco, a che punto siamo arrivati. L’Italia di Bearzot vinse meritatamente il Mondiale del 1982 punendo, senza pietà, un Brasile pirotecnico ma presuntuoso, e un’Argentina presuntuosa, e neanche pirotecnica; da allora sono passati 28 anni, e nella memoria di quel giornalista è evidente la distorsione prodotta dalla cultura televisiva di un calcio-spettacolo a tutti i costi, proprio quando squadre come il Brasile, la Germania, il Ghana, per non dire altre, hanno cominciato a giocare con buona difesa e contropiede.
Anni fa, Brera rimproverava Sacchi di voler dare spettacolo con il Milan di Gullit e Van Basten: gli diceva che, con i giocatori che si ritrovava, giocando all’italiana, avrebbe vinto il doppio. E noi, oggi che non abbiamo campioni, che cosa vogliamo fare?
Salvatore Ritrovato