Ecco perché Croazia-Serbia conta più di Italia-Brasile
Non avrà il fascino di Italia-Brasile, ma il vero evento calcistico – e non solo – più attesto di questo “weekend Nazionali” è quello che si gioca a Zagabria: Croazia-Serbia. Nessun Pirlo e Neymar, nessun richiamo di superstar internazionali, ma la sfida tra le due formazioni balcaniche rappresenta qualcosa in più di una semplice partita valida per le qualificazioni ai prossimi mondiali brasiliani. Dietro si nascondono – nemmeno troppo velatamente – geopolitica, storia, guerre e precedenti di una zona che, dalla notte dei tempi, è una polveriera a cui spesso è bastata una miccia per accendersi ed esplodere.
PRIMA VOLTA – Anzitutto l’evento. Croazia e Serbia, così come le conosciamo ora, si sfideranno per la prima volta dalla fine della guerra e con le cartine di geografia politica ben definite. Il precedente del 1999 infatti – giocato in un clima di tensione surreale – non è da considerarsi tale poiché la nazionale jugoslava comprendeva ancora il Montenegro (dal 2003 Serbia-Montenegro, dal 2006 scissione definitiva delle due Nazionali). Acqua sotto i ponti ne è scorsa, giri di calendario e fasi lunari anche, ma quella tra croati e serbi resta una sfida che definire delicata pare un eufemismo. E per capirlo basta pochissimo: lo stadio Maksimir di Zagabria, luogo dove si disputerà la partita, già di per se avrebbe qualcosa da raccontare…
VECCHIE RUGGINI – I più anziani di voi lettori – o quelli semplicemente attenti alla politica – ricorderanno questo nome per l’avvenimento che nel maggio del 1990 – a un mesetto dal mondiale italiano – scosse l’opinione pubblica internazionale. La sfida tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado. La sfida che non si giocò mai. La partita infatti, in programma esattamente 7 giorni dopo le elezioni che a Zagabria incoronarono l’Unione Democratica Croata di FranjoTudman (una forza politica che voleva riorganizzare la Jugoslavia in una confederazione), si tramutò in guerriglia ritenuta poi dagli storici come il prologo della guerra di indipendenza croata che si sarebbe scatenata da lì a poco.
LA NOTTE CHE APRI’ LA GUERRA – Quella notte infatti, oltre 3000 sostenitori (serbi) della Stella Rossa, guidati da quel Zeljko Raznatovic – meglio noto con lo pseudonimo di Tigre Arkan – primo oppositore alle voglie indipendentiste dei croati, si scatenarono in tumulti che solo sul campo Maksimir portarono a più di 60 feriti. Gli scontri iniziarono sugli spalti, e si trasportano poi sul terreno di gioco, in un cortocircuito di leggi e poteri che solo nei Balcani post Tito avrebbe potuto aver luogo: i “tifosi” della Stella Rossa devastarono parte della città e iniziarono a lanciare di tutto verso i supporter della Dinamo, la polizia di Zagabria – a maggioranza serba – prima lasciò fare e poi decise di intervenire verso i tifosi croati che avevano iniziato a rispondere; questi ultimi scatenarono un’invasione nel tentativo di raggiungere quelli della Stella Rossa ma lì successe di tutto, non ultimo lo storico calcio di Zvonimir Boban (all’epoca capitano della Dinamo) a un poliziotto che stava picchiando proprio un tifoso della Dinamo. I tumulti continuarono poi in città, i giocatori della Stella Rossa scapparono in elicottero e quello, ad oggi, resta l’episodio più basso della storia dello sport nei Balcani.
I MESSAGGI DI PACE – Inutile dire che la situazione, 23 anni dopo, è decisamente diversa. Venerdì sera non assisteremo a nulla di tutto ciò, ma la memoria e le tensioni di un periodo sanguinoso, da quelle parti, non si cancellano facilmente. E le istituzioni calcistiche lo sanno bene. La UEFA ad esempio, che dopo la guerra ha investito molto sul calcio come messaggio di pace e ricostruzione in tutti i Balcani, ha gli occhi puntati su questo match. Platinì ha scritto ai presidenti di Croazia e Serbia predicando alla calma e onde evitare sorprese, le rispettive Federazioni hanno vietato le trasferte. Davor Suker, presidente della Federcalcio croata, ha poi dichiarato: “Vorrei avere la bacchetta magica ed impedire che venga fischiato l’inno serbo”, ma non tutti i messaggi hanno colto nel segno.
CLIMA TESO – L’allenatore della Croazia Stimac, qualche giorno fa, aveva provocatoriamente proposto che fosse Ante Gotovina (leader dell’esercito croato, per anni considerato colpevole di pulizia etnica sui serbi ma assolto nel 2012) a dare il calcio d’inizio. Dall’altra parte invece, c’è la storia di Sinisa Mihajlovic. L’ex difensore di Lazio e Inter e ora allenatore della Serbia è nato a Vukovar, una cittadina croata simbolo del conflitto balcanico degli anni ’90. Il piccolo centro, diviso dai confini attuali tra Croazia e Serbia solo dal fiume Vuka, è ritenuto dai serbi un “proprio territorio”, tanto che qualche mese fa lo stesso presidente serbo Nikolic non si fece alcuno scrupolo a definirla “una città serba in cui i croati non hanno ragione di tornare”. E in Serbia c’è chi giura che Mihajlovic abbia accettato l’incarico da allenatore proprio perché nel girone avrebbe incontrato la Croazia.
LA SPERANZA – Insomma, come avete potuto intuire, le scorie di una vita, nelle generazioni che in un modo o nell’altro hanno vissuto quegli anni, sono tutto fuorché estinte. Il compito delle nuove, allora, è far sì che quella tra Croazia e Serbia sia solo una partita di pallone in cui la squadra di Mihajlovic giochi per provare a recuperare i 6 punti di distacco che ha proprio dalla Croazia capolista del gruppo A (a pari merito col Belgio), imitando così il gesto storico di due ragazzi avvenuto qualche settimana fa a Mostar. In un’altra cittadina simbolo del conflitto balcanico, la giovane coppia (nella foto qui sopra) ha risposto così alla domanda di un’anziana che chiedeva al ragazzo serbo come potesse camminare mano nella mano con una croata. Al football, questa volta, il compito di farsi perdonare.
(di Simone Eterno, eurosport.com)