La testimonianza di Liliana Segre
Si celebra oggi in tutto il mondo la Giornata della Memoria: il 27 gennaio infatti è il giorno in cui si commemora la Shoah, il genocidio degli ebrei operato dalla Germania nazista e i suoi alleati durante la Seconda guerra mondiale
La Giornata della Memoria è stata istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 1° novembre 2005 per ricordare per sempre il genocidio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Si celebra il 27 gennaio perché è questo il giorno in cui, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa entrarono per la prima volta ad Auschwitz: vennero abbattuti i cancelli del campo di concentramento e in quel momento fu rivelato al mondo l’orrore che per anni aveva portato alla morte milioni di persone.
Nonostante siano passati più di 70 anni da quel momento, ci si continua ad interrogare su ciò che si sarebbe potuto fare per evitare che questa vergogna fosse compiuta.
Durante la guerra ci furono numerose associazioni segrete che combattevano contro quei regimi totalitari, incuranti delle conseguenze per cercare di salvare la vita di coloro che erano destinati ad essere internati perché Ebrei, ma se queste piccole minoranze avessero avuto più sostegno forse si sarebbero potuti evitare i rastrellamenti, le deportazioni, le torture.
L’Italia non può essere totalmente discolpata, perché anche il nostro paese non ha saputo fermare, ed anzi, ha cavalcato l’onda di Mussolini e del suo fascismo. Ciò però non può mettere in secondo piano quello che alcuni uomini coraggiosamente, opponendosi alla tirannia, alle barbarie, alle minacce, alle “manganellate” fecero per salvare gli Ebrei dalla persecuzione.
Le responsabilità italiane nello sterminio degli Ebrei e l’importanza del ricordo sono fondamentali per evitare che infamie come l’Olocausto possano ripresentarsi nuovamente.
L’obiettivo della Giornata della Memoria è proprio quello di fare luce su quanto accaduto, per ricordare ed evitare che cose del genere non possano più accadere.
Il 27 gennaio rappresenta quindi una sorta di presa di coscienza collettiva, la voglia di non dimenticare il male che è stato capace di fare l’uomo (leggi razziali, persecuzione, deportazione, prigionia, assassinii) e commemorare le vittime dello sterminio per fare in modo che queste crudeltà non si ripresentino mai più.
Quest’anno abbiamo deciso di pubblicare la testimonianza della Senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti.
“Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava.
Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno.
Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. «Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio.
Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere.
Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi
porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle
sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era
importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora
e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi
diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo
avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri
aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un
altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo:
annientare la nostra umanità.”
“Fino a quando la mia stella brillerà”
Liliana Segre