Come sempre più spesso accade nel nostro Bel Paese, i deficit della distribuzione cinematografica vengono colmati soltanto quando emergono valide spinte di mercato che ne giustifichino gli investimenti. E così, bisognava aspettare il successo di pubblico internazionale del chiacchierato Shame, per poter vedere nelle nostre sale la validissima opera prima del suo regista, Steve McQueen. Un lungometraggio essenziale e d’impatto sin dal titolo: Hunger.
Si tratta della storia carceraria di Bobby Sands, militante IRA arrestato nel corso degli anni ’70, promotore di una dura campagna di protesta contro il Governo inglese, all’epoca fermamente contrario al riconoscimento dello status di prigionieri politici ai membri dell’armata per l’indipendenza irlandese dalla corona britannica. Al pugno di ferro di Lady Tatcher si contrappose la compatta reazione dei prigionieri di Long Kesh, che, guidati da Bobby Sands, tentarono di far sentire la loro voce prima con la “protesta delle coperte”, poi con la “protesta dello sporco” ed infine con un estenuante sciopero della fame, che portò alla morte diversi prigionieri, tra cui lo stesso Sands.
Un crudo e violento realismo pervade l’intero film. Ad una prima parte analitica e descrittiva delle precarie condizioni dei prigionieri, si contrappone una seconda parte di stampo marcatamente intellettuale, dove a farla da padrone sono le idee. Le idee di Sands (la libertà, la lotta politica, la battaglia contro le oppressioni con qualsiasi mezzo), e quelle del Governo Britannico (l’intransigenza, la linea dura, il rifiuto del compromesso).
Una politica, quella inglese, non molto dissimile da quella di un Paese in stato di guerra, dove non ci sono leggi che valgano o diritti umani da rispettare. Mc Queen non trascura di dettagliare la violenza brutale della polizia inglese ai danni dei prigionieri, così come non si contiene nel mostrare gli attentatori all’opera, nelle contee d’Irlanda. Non si parteggia per nessuno, si prende solo coscienza di ciò che è stato, attraverso immagini spiazzanti e senza filtri. Per quanto d’impatto siano le scene proposte, il regista inglese non rinuncia alla calibratura tecnica e non lascia nulla al caso. La camera fissa che inquadra per più di 20 minuti Sands e il suo parroco alla loro ultima e concitata confessione, mostra quanto riguardo ci sia stato per i contenuti ideologici, che però non sono stati privilegiati a vantaggio del realismo storico, né delle vicende dei vari personaggi.
Menzione particolare a Micheal Fassbender, pupillo di McQueen, che ha coraggiosamente prestato le sue abilità per un ruolo “fisico” assolutamente non facile. Alla fine dell’inquietante visione, ci si domanda come sia possibile che dopo circa 30 anni dall’inizio dell’era Thatcher si possano ancora far passare inosservati film del genere e invece premiare una (seppur eccellente) Maryl Streep con l’Oscar per un incompleto e non esaustivo tratteggio della Lady di Ferro.