LibriAmo a cura di Renata Grifa
Dieci anni erano traguardo solenne, per la prima volta
si scriveva l’età con doppia cifra.
L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni.
Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio
inceppato delle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori.
Tenevo dieci anni.
Per dire l’età, il verbo tenere è più preciso.
Ci sono storie che solo Napoli sa raccontare, ci sono incontri che solo sotto quel cielo e quel mare possono avvenire.
Può un bambino di dieci anni sentirsi all’improvviso già grande? Basta davvero aggiungere uno zero davanti all’uno perché tutto cambi?
È quello che sembra accadere al piccolo protagonista di questo romanzo.
Dieci anni sono troppo pochi per sapere come gira il mondo, eppure lui si sente già adulto.
È estate su una delle tante isole campane, le giornate passano lente tra un tuffo in mare e un quadernetto di parole crociate, lontane dal caos cittadino questo ragazzino curioso diventa osservatore di un mondo che dovrebbe restare ancora lontano da lui.
Stretto in un corpicino che a suo dire non segue la crescita degli anni, “stavo in un corpo imbozzolato e solo la testa cercava di forzarlo” questo bambino non si accontenta di vivere la sua età, ma vuole saperne di più. Saperne di più su quel mondo di adulti che dice già di conoscere “tranne per un verbo che loro esageravano a ingrandire: amare. Mi infastidiva l’uso. In prima media lo studio della grammatica latina l’adoperava per esempio di prima coniugazione, con l’infinito in -are. Recitavo tempi e modi dell’amare latino. Era un dolciume obbligatorio per me indifferente alla pasticceria. Più di tutto mi irritava l’imperativo: ama”.
La sua estate cambia però all’improvviso quando, sulle spiagge dell’isola, conosce una ragazzina della quale cinquant’anni dopo nemmeno ricorderà il nome. Una ragazzina che gli farà conoscere il piacevole suono della parola mantenere “il mio verbo preferito, era successo”, che gli farà desiderare di tenerla per mano, mani che nell’intero racconto hanno un ruolo chiave nel descrivere quella che poi sarà l’evoluzione degli eventi, della vita.
Mani rugose da grandi, e mani morbide di bambini, il senso del tatto “che non sta in un organo solo come gli altri quattro, ma sparso in tutto il corpo”.
Ancora una volta, con la maestria e delicatezza che contraddistingue la penna che accompagna queste pagine, Erri De Luca, forse raccontando anche di sé, ci accompagna in un viaggio di formazione e di spensieratezza che si concluderà alla fine dell’estate con la scoperta dei più delicati dei sentimenti.
Un racconto che sa di poesia, in cui ciascuno può tornare bambino, a quell’infanzia e a quell’estate lì, quando eravamo immersi in un mondo che guardavamo solo da lontano, dimostrando che potevamo farcela da soli e che avremmo ceduto, inconsapevoli, solo davanti a chi, stando a un millimetro da noi ci avrebbe chiesto di chiudere questi occhi di pesce e noi, senza nessuna esitazione, avremmo risposto che no “non posso. Perché se tu vedessi quello che vedo io, non li potresti chiudere”.