Noi, gli alleati e il ritiro da Kabul
di Franco Venturini (da Corriere.it)
Il bersagliere ucciso da un attacco talebano rende ancor più grave la doppia crisi della guerra in Afghanistan: perché fa ancora crescere il numero dei nostri caduti ma anche perché, dopo oltre dieci anni di conflitto, le grandi potenze occidentali riunite nella Nato non sanno più come proclamare una vittoria che non c’è. Il problema che si pone, piuttosto, è di far tornare a casa i soldati dell’Alleanza senza che Kabul somigli troppo a Saigon o a Mogadiscio, senza ammettere il fallimento dell’impresa inizialmente prevista e senza lasciare che venga distrutto quanto di buono dal 2001 a oggi è stato comunque fatto.
L’Afghanistan ha confermato la sua fama di «tomba degli imperi»: dopo gli inglesi e i sovietici tocca ora alla Nato l’onere di studiare il disimpegno meno compromettente. Anche perché sul programma che era stato elaborato due anni fa e che formalmente resta in vigore (ritiro alla fine del 2014) si sono abbattuti episodi che fatalmente si tradurranno in una accelerazione più o meno mascherata del calendario previsto: lo scorso gennaio le immagini di soldati Usa che offendevano nel modo più volgare cadaveri di talebani, in febbraio il rogo dei Corani e la conseguente uccisione di due consiglieri americani in un ministero di Kabul, l’11 marzo l’inaudito massacro di 16 civili afghani ad opera del sergente Robert Bales.
La sequenza di «incidenti» ha fatto esplodere il clima di sfiducia già da tempo latente tra gli Usa e il presidente afghano Karzai, ha moltiplicato i dubbi degli alleati europei e soprattutto ha innescato in America un dibattito che, dietro le quinte dell’ufficialità, è ancora lontano da conclusioni condivise.
Un «piano Obama» in cinque punti si va comunque disegnando. Il presidente ha fretta di concludere un accordo con Karzai per esibire un successo al vertice Nato di Chicago (in calendario per maggio), per concordare la contestata modalità operativa dei raid notturni e per avere un assenso di principio alla permanenza di basi militari dopo il 2014. I soldati Usa impegnati sul campo saranno portati da 90.000 a 68.000 entro la fine dell’estate. Ulteriori decisioni saranno prese dopo le elezioni di novembre. A metà del 2013 il ruolo delle truppe Usa (e dunque Nato) diventerà «di supporto» alle forze afghane nel frattempo addestrate. Si tenterà di avviare un vero dialogo con i talebani nella sede già prevista in Qatar.
In apparenza, Obama non intende dunque cedere alla «tentazione del ritiro» prima del dicembre 2014. E può ancora darsi che alla fine le cose vadano proprio così. Ma la novità, che tutti i Paesi impegnati in Afghanistan sbaglierebbero a
sottovalutare, è che dietro la road map elettorale di Obama si è ormai aperta tra gli alleati atlantici una discussione carica di stanchezza e alimentata non poco dalle possibili contraddizioni del piano americano.
La chiave di volta risiede in una sollecita afghanizzazione del conflitto, ma addestrare e finanziare una forza di 352.000 uomini comporta già oggi ardue divisioni di spesa tra alleati, e dopo il 2014, per poter spendere «soltanto» quattro miliardi di dollari l’anno, i guardiani del nuovo corso saranno ridotti a 230.000 proprio nella fase di maggior pericolo.
Sarà ben difficile puntare su Karzai e contemporaneamente sui talebani che odiano Karzai. Quando i militari Nato diventeranno «di supporto» agli afghani l’anno venturo, rischieranno di diventare anche bersagli più facili da colpire. E sono ben pochi, fuori dai comunicati ufficiali, i responsabili militari che considerano le forze afghane pronte ad affrontare nuovi e più gravosi compiti.
Non meraviglia, allora, che i britannici mettano le mani avanti per non rimanere scoperti da ripiegamenti americani nel Sud. O che i francesi pensino a ritirarsi entro la fine del 2013 (ma se Hollande vincesse le presidenziali sarebbe entro la fine del 2012). O che i tedeschi intrattengano una certa ambiguità non chiarita dai dubbi della Merkel.
Abbiamo sempre sostenuto che l’interesse nazionale italiano è che il nostro contingente in Afghanistan (il quarto per numero) si muova con gli alleati e non prima o diversamente da essi. Restiamo di questa opinione. Ma quando parte il gioco del cerino bisogna stare attenti a non bruciarsi. Bisogna partecipare al dibattito in corso, marcare la propria presenza, identificare (crediamo noi) nella trattativa con i talebani l’unica via d’uscita forse ancora praticabile e dare conto delle scelte fatte o previste a una opinione pubblica che non può dimenticare né i suoi soldati a rischio né i suoi soldati morti. Per il governo anche l’Afghanistan deve essere una priorità.