Un anno di episcopato alla luce di San Pio
In occasione del primo anniversario dall’insediamento di Padre Franco Moscone nella nostra Diocesi, SanGiovanniRotondoNET ha intervistato in esclusiva il nostro Vescovo per scoprire le sensazioni e le emozioni che hanno caratterizzato il suo primo anno di ministero pastorale nella nostra terra.
Dodici mesi nella variegata realtà del Gargano; mesi difficili, impegnativi ma anche ricchi di avvenimenti, di soddisfazioni e di sfide.
Il 12 gennaio 2019 Monsignor Brunetti, nella cattedrale della sua città natale, Alba, la nominava Vescovo affidandole la Diocesi di Manfredonia – Vieste – San Giovanni Rotondo. A distanza di un anno come è cambiata la Sua vita avendo su di sé la responsabilità spirituale di un’intera comunità?
La mia vita è cambiata completamente perché rispetto al passato sono cambiati gli impegni, sono cambiate le finalità e naturalmente il luogo di vita, le persone di riferimento. Per molti aspetti posso dire che sto vivendo una terza vita, come nascere un’altra volta almeno per quel che riguarda gli aspetti relazionali, di conoscenza dell’ambiente, delle città e delle funzioni da svolgere.
Le manca un po’ la sua terra d’origine?
Non mi manca nel senso che l’avevo lasciata una trentina di anni fa, da Alba manco da ancor prima. Mi manca più che altro lo stile di vita che non è quello di adesso. Lo stile di vita di un vescovo non è di certo uguale a quello vissuto da semplice religioso di una congregazione per quasi quarant’anni.
Fin da subito, con la Sua lettera di presentazione alla Diocesi, ha espresso la volontà e il desiderio di mettere da parte titoli quali “Monsignore” o “Sua Eccellenza” ed essere chiamato semplicemente “Padre Franco”. Qual è il motivo di questa scelta?
Il motivo è che essendomi affidata una responsabilità ulteriore, anche se collegata alla fede, all’ordinazione e alla pienezza del sacerdozio, non cambia la mia identità e la mia storia che è quella di aver scelto come vocazione di far parte dei Padri Somaschi. Io mi ritengo a tutti gli effetti parte della congregazione e quella vocazione non l’ho assolutamente persa, solo che sono chiamato a viverla ora qui nella funzione di vescovo. È una scelta di continuità con la mia storia di vita di chiesa regalatami dal Signore. E poi ritengo che sia un modo per essere più vicino alla gente, più relazionabile, che possa aiutare maggiormente la gente ad avvicinarsi. Anche se si utilizzano altri titoli, fondamentalmente il titolo di Padre non lo vedo così strano per un Vescovo, tutt’altro.
Lei ha operato davvero ai confini del mondo, toccando con mano la vera povertà, in posti in cui le ricchezze della terra sono sfruttate, spesso male, o monopolizzate, ora si trova qui, sul Gargano, una terra diversa, altrettanto ricca, ma troppo spesso tenuta in scacco da quell’illegalità che ci ruba il futuro: la mafia, le guerre tra i clan, ecc. Più volte Lei con grande coraggio ha lanciato il suo monito alla criminalità. In che modo la società civile e la Chiesa possono rendere il loro servizio affinché questa comunità di cui tutti ci sentiamo parte possa uscire da questi giochi di potere fino a poter dire, come ripeteva San Pio, che “il Gargano è la cattedrale del Creato”?
La società civile e la Chiesa possono rendere il loro servizio nella misura in cui si gioca insieme, stando alle stesse regole del gioco e sullo stesso campo. Non sentendosi in competizione. La Chiesa è parte di questa società civile, dentro questa società è chiamata ad annunziare il Vangelo e denunciare quelle che sono le situazioni negative, di scandalo o come le definiva Giovanni Paolo II “strutture di peccato” che purtroppo esistono, denunciarle con le proprie responsabilità e con la propria presenza, e anche con molta umiltà. Distinguendo naturalmente i ruoli e gli impegni: la Chiesa non perché dice certe cose, denuncia certe situazioni si vuole sostituire a chi nella società civile è responsabile ai vari livelli, da quello politico, amministrativo, economico, imprenditoriale ecc. Ognuno deve fare la propria parte.
In piena continuità con il compianto Vescovo Michele Castoro, nella Sua prima lettera pastorale “Il seminatore uscì a seminare. Educare è… generare nella misericordia”, citando anche un proverbio africano secondo cui “per educare occorre l’impegno dell’intero villaggio”, fa più volte riferimento all’importanza della cooperazione di ognuno all’interno di un progetto più ampio, quanto impegno e quanta opposizione ha trovato all’attuazione della sua missione?
Credo che ci sia una sufficiente presa di coscienza sul lavorare insieme, e che per educare ci vuole l’intero villaggio. Si dice che nei villaggi dell’Africa non ci siano gli orfani, che sono presenti nelle gradi città una volta che abbandonano il loro villaggio. Ho trovato la volontà di fare alleanza, di essere in collaborazione: il problema è trovare soluzioni, fare delle scelte attive che siano capaci di educare, di far assumere responsabilità, di aprire percorsi nuovi. Insomma avere un progetto di società: non basta la denunzia delle negatività, il solo rendersi conto dei problemi. C’è bisogno di un passaggio ulteriore, che sarà significativo solo se lo si farà insieme e non ognuno per conto suo. Il progetto, se deve esserci, deve riguardare tutto il “villaggio”.
In questo anno qui con noi l’abbiamo vista sempre più spesso circondato di giovani e bambini con i quali ha fatto anche dei pellegrinaggi in luoghi santi di questa terra, nei giorni del Suo insediamento ha di fatto espresso la sua vicinanza esortandoli a essere protagonisti del rilancio sociale. Qual è il Suo rapporto con loro? Con quei giovani che si lasciano guidare da Lei e soprattutto con quelli che invece hanno smarrito la luce da seguire?
Il mio rapporto coi giovani è anche legato alla mia vocazione perché la congregazione dei Padri Somaschi si occupa prevalentemente dei giovani, del loro recupero da situazioni di disagio attraverso la scuola o gli oratori, per dar loro un futuro. Non penso di aver cambiato sistema o attitudine rispetto al passato. Guardo al mondo giovanile con sguardo attento, e come dice Papa Francesco i giovani sono il “futuro adesso”. A loro dobbiamo credere, dare responsabilità ma anche accompagnarli e ascoltarli. È quello che cerco di fare: non sempre è facile ma se uno ci mette cuore e tempo le risposte e le opportunità per interfacciarsi ci sono.
E poi la “Casa”, Casa Sollievo della Sofferenza, l’affido che le è stato fatto come Presidente e custode terreno di quella che è la più grande opera visibile di Padre Pio, ricordiamo che addirittura Padre Pio prima ancora di inaugurare il Santuario ha inaugurato La Casa del Sollievo, quel sollievo e quell’assistenza che deve sempre essere al servizio del letto dell’ammalato, letto che Lei ha definito “un altare”. Ci spieghi meglio questa affermazione.
Ci vorrebbe tempo per spiegare questo concetto. Se Gesù ha detto che è presente in ogni persona, che il suo volto lo si trova nel volto dell’altro, in particolare se l’altro è in una situazione di bisogno, difficoltà e sofferenza, chi più del malato, dell’abbandonato, può dimostrare il suo volto. Questo vuol dire che assistere, avvicinare, accogliere chi è nel bisogno equivale ad accogliere il Signore. È in qualche modo un celebrare una eucarestia nella carne più che nel rito stesso. Servire l’altro, l’essergli vicino è celebrare l’eucarestia. Ecco perché alcuni lavori, alcune professioni contengono una missione: è quel dare qualcosa in più oltre alla medicina e alla terapia. È dare un senso, una vicinanza. Il letto dell’ammalato è un altare e la persona che incontro è il Signore.
Oggi è San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti: che augurio sente di fare a noi e a chi come noi cerca di fare informazione in una terra come abbiamo detto difficile, dove fare una giusta informazione diventa sempre più complicato?
Che tutti coloro che lavorano nei mass media e nella comunicazione sentano l’informazione come una missione. Oggi bisogna informare bene, trasmettendo le notizie giuste e non solo quelle che fanno scalpore. Chi, come spesso avviene ultimamente, trasmette le cosiddette fake news non sta facendo giornalismo, ma crea un disservizio che, oltre ad essere qualcosa di illegale, non farà altro che favorire il degrado della società. La buona informazione, il buon giornalismo deve essere di crescita e non di distruzione. Stare ad un livello alto ed essere portatori di informazioni che formano la società.
Grazie Padre Franco per questa preziosa testimonianza.