Un incontro con lo scrittore Franco Arminio
di Salvatore Ritrovato
Tema della settimana del Cinefestival, organizzato dall’associazione cul-turale ProvoCult (San Giovanni Rotondo, 10-14 agosto 2009), è stato “Viaggio a Sud”. Tra gli ospiti invitati – registi, critici, attori – anche uno scrittore, Franco Arminio (n. 1960), autore di varie raccolte di versi (ricordiamo l’ultima plaquette, Poeta con famiglia, Edizioni d’If, Napoli 2009) e di saggi di un genere raro, a metà fra memoria di viaggio e scrittura aforistica, reportage e confessione autobiografica, con cui si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica letteraria nazionale: parliamo di Viaggio nel cratere (Sironi, Milano 2003), che raccoglie articoli, usciti per diversi giornali locali, sui paesi irpini colpiti dal terremoto del 1980, con una prefazione di Gianni Celati; di Circo dell’ipocondria (Le Lettere, Firenze 2007), che porta in allegato un dvd documentario sul paesaggio irpino, La terra dei paesi; e del recente Vento forte tra Mace-donia e Candela. Esercizi di paesologia (Laterza, Bari-Roma 2008), che allarga l’orizzonte della veduta, dall’Irpinia alla Puglia, al Molise, al Pie-monte.
Il “viaggio a sud” di Franco Arminio comincia dal suo paese di nascita:
«Sono nato e vivo a Bisaccia, nell’estremo lembo orientale della Campania. Una desolata altura bizantina e un grumo di case in bilico su un costone di argilla e cianuro. Sono tante le immagini più o meno venefiche con cui ho ritratto in versi e in prosa un luogo dove, come ripetenti, siamo costretti a trascrivere la bella copia del non vivere.» (Viaggio nel cratere, 16)
In Viaggio nel cratere, in particolare nella sezione introduttiva e in quella conclusiva, Arminio mette a fuoco il suo ‘metodo’ di scrittura di viaggio: non è il punto di vista dell’esteta in cerca dell’esotico, o del turista, cu-rioso dello spettacolo, ma del “paesologo”, cioè di colui che studia la fenomenologia e il «funzionamento di quei piccoli organismi» che sono i paesi la cui popolazione è inferiore ai 3000 abitanti. Che cosa fa il paesologo? Nel suo dizionario, le città sono meno interessanti dei piccoli paesi, e fra i piccoli paesi quelli sconosciuti (es. Rossigno Vecchia o Cairano) sono più importanti di quelli famosi (es. Portofino o Taormina). Gli uomini sono portati a credere che la vita sia in città, ma la presunta ‘non-vita’ del paese fornisce metafore più efficaci della presunta vita (senza dire, della movida!) della città, per descrivere quello che sta accadendo nel mondo, la sua «agonia morale».
«Diciamo la verità, nelle città, nei luoghi più affollati, non accade letteralmente nulla, a parte le stragi prossime e future. Anche nei paesi non accade nulla, ma qui questo non accadere, questo non farsi della cose, è ancora avvertibile, o almeno a me capita di avvertirlo.» (Viaggio nel cra-tere, 169)
Non basta visitare un luogo con lo spirito dello storico, che va alla ricerca di monumenti perduti, o del botanico, che conosce tutti i nomi delle piante; occorre un punto di vista più basso, simile a quello del raccoglitore di asparagi o di funghi, il quale esce di casa con la consapevolezza che potrebbe tornare a mani vuote, e sa, comunque, di non compiere un’azione conoscitiva, bensì di coniugare, per un giorno, svago e sopravvivenza. Come per il raccoglitore di asparagi o di funghi, così per il paesologo il paesaggio non si compone di vedute sublimi, ma di dettagli umili, eppure preziosi: un albero davanti alla chiesa, una fontana spenta, macchine parcheggiate, bambini che giocano in una piazza, vecchi silenziosi al tavolo di un bar, un gatto che ci osserva dal balcone, il vento che solleva i panni stesi. Più che un luogo di vita, il paese è uno «strumento di lavoro», in cui tutto può essere importante.
«Sopra Colliano c’è Collianello, una sorta di supplemento di paese. Poche case, pochi anziani, atmosfera mesta. Il peggio che si possa dire di Collianello è che non c’è niente. Invece ci sono panni stesi e questa bambina che adesso mi guarda e questi anziani coniugi che si parlano senza guardarsi. Ci sono ogni giorno case che si aprono, gente che si la-va la faccia o che accende il televisore, gente che si nutre del silenzio che c’è intorno. Ho già scritto altre volte che il silenzio dei piccoli paesi è un grande nutrimento per il visitatore occasionale, è un ronzio fastidioso per chi lo abita ogni giorno. »(Vento forte, 143)
Ci si occupa dei paesi quando scoppia un grave fatto di cronaca o quando un bar vende la schedina vincente dell’enalotto; si elogia i piccoli paesi come ‘luoghi’ di relax e evasione dallo stress cittadino; intanto ci si dimentica della profonda frattura storica – o geologica, come avviene nei terremoti – che trasforma i borghi agricolo-pastorali in contenitori, con vuoto a perdere, di un nuovo consumismo turistico. Contro questi stere-otipi Arminio non spreca molte parole: quel che gli interessa è fotografare i paesi in quanto ‘luoghi’ della condizione umana. Di una condizione che riguarda tutti, e riesce ad apparire, in questo scorcio di secolo, in questo angolo di Occidente, solo in specchi antichi, sporchi, incrinati, dei paesi più lontani dal centro del mondo, in cui, a volte, come succede a Conza Vecchia, non c’è niente: e non dico automobili o televisori, le case sono chiuse o diroccate, i negozi vuoti, le chiese non hanno neanche l’altare; luoghi non per turisti ma «per chi ha due minuti di vita tra le dita», o «per chi ha sente l’urgenza di allontanarsi da tutto e di avvicinarsi a tutto» (Vento forte, 52).
Dalle città invisibili di Calvino ai paesi invivibili di Arminio, così passa il mondo del nuovo millennio, un posto «pieno di cose che non sappiamo come svuotarlo», dove «le persone sputano e mangiano e dormono e di-cono bugie e credono di odiarsi o di amarsi». E qui, la differenza è un velo trasparente che rapidamente precipita il tempo normale dei piccoli paese in apocalissi provvisorie, e ne libera tutta la leggerezza del vivere; al contrario,
«il mondo tende a prendere peso, a dilatarsi e noi siamo schiacciati da questo peso, conversiamo sotto il peso delle nostre parole, amiamo sotto il peso del nostro amore, scriviamo sotto il peso della nostra scrittura, viviamo sotto il peso della nostra vita e non riusciamo a metterci sopra, non riusciamo a salire come un passero sale su un ramo.» (Vento forte, 53)
Il terremoto dell’80 costituisce, nell’inchiesta di Arminio, un retroterra personale traumatico insuperabile, che si fonde con un senso di “abbandono al paese”, ovvero di derelizione, che traduce la non-partenza come “rimanenza”. La constatazione che qualcosa sia sfuggito alla vita, fra la grande silenziosa emorragia dell’emigrazione e il sisma che costituisce un punto fermo, di non ritorno, nel rapporto fra l’Italia e il Sud, si incrocia, nella scrittura di Arminio, con il sentimento della fragilità della poesia, malintesa «forma di conoscenza», e quindi con la tentazione di ‘gettare’ i versi fuori, nel buio, e di vederli, prima del tempo, dimenticati. Fatta salva qualche pubblicazione, Arminio deposita infatti le sue poesie in buste nere, come quelle per l’immondizia, e tuttavia sa bene che la soluzione non è partire, cioè emigrare, ma restare, senza malinconia, anzi con «sgomento». Perché, se per chi parte è difficile elaborare un’altra vita, progettare il luogo delle origini come Altrove, per chi resta è difficile occuparsi della vita, cioè passare i giorni in luogo che ha perso le origini e non è Altrove. Ed è ancora più difficile raccontare tutto questo, dal momento che la poesia deve superare l’imbarazzo della prosa adottando uno strumento idoneo per mettere a frutto quello «sgomento». Camminare, guardare, andare e tornare, osservare, delirare (inteso nel suo etimo), ecco le fasi della paesologia, «scienza difettosa» che studia paesi veri, non immaginari, in cui è permesso, se non raccomandato, anche perdere tempo, andare a zonzo, divagare.
«I paesi che ho visto non vogliono stordirti con la patina dell’orrido o del meraviglioso. Sono luoghi veri, perché luoghi qualunque di un Occidente che pare la cosa di un serpente a cui hanno tagliato la testa. È un mo-vimento senza direzione. I paesi non sono più luoghi per difendersi. Non ci sono barbari in arrivo. Molti scendono verso la pianura, scelgono luoghi dove c’è più gente. Sembra che la vita abbia senso solo se è mischiata a semafori e capannoni e cartelloni pubblicitari. La vita è andare in macchi-na, andare in macchina a divertirsi, a lavorare. Stare seduti su una panchina è roba da vecchi. Eppure sono proprio questi luoghi, sono proprio questi paese spopolati una delle poche speranze per il nostro futuro. Forse un giorno a Ripabottoni torneranno a giocare tanti bambini in mezzo alle strade e le statue torneranno nelle loro nicchie. Forse un giorno non lontano sarà evidente che l’irrealtà con cui abbiamo svuotato il mondo e noi stessi può essere sconfitta tornando a viver in luoghi di-messi e appartati, tornando ad accumulare giornate bianche, giornate in cui accade poco, ma quel poco che accade non svanisce nella girandola che c’è adesso.» (Vento forte, 116-117)
Non si tratta, dunque, di fare un reportage ben fornito di testimonianze e dati inappuntabili, ma di proporre una nuova lettura del “bel paese”, che rovescia la tradizionale antinomia città vs provincia, isolando, all’interno della provincia, un anti-modello di paese che l’industria turistica non può spacciare sul mercato: una volta la città riforniva di idee alla provincia, la quale ricambiava con viveri, carne, latte, uova fresche; adesso è il contrario, la provincia esporta inquietudini e rimpianti, che la città ricambia con viveri e derrate venduti in lussuose catene di centri commerciali. E sono proprio i paesi più piccoli a trascinare, come relitti fantasmi di quella «umile Italia» di cui parlava Pasolini, la nostra condi-zione ‘post-rurale’ nel baratro di uno spazio domestico. Quale baratro? Quello che rimescola le generazioni nella poltiglia del pubblico dei con-sumatori, e intanto allontana i politici dai cittadini, e i tele-cittadini, corteggiati dal potere digitale e dai nuovi miti dello spettacolo, dall’antica ma ancora fresca memoria della civiltà contadina. Il baratro della questione meridionale mai risolta, e del limes che segna confini immaginari, fatti d’aria e d’acqua, tra Nord e Sud del mondo, benessere e miseria. Da Viaggio nel cratere, inchiesta dolorosa e disincantata nei paesi del terremoto irpino, a Vento forte, memoria e saggio di quel che “non” succede, o “non” è successo, nei ‘piccoli paesi’ appenninici (dall’Irpinia al Molise) e alpini (in Piemonte), sentiamo l’invito a uscire dalle nostre case, e ad apprendere, a confrontarci, e a dare il meglio, nonostante tutto:
Guardala, la terra è più tenera
del cielo.
Non restare tutta la vita
con le unghie conficcate
Nella tua anima o in quella degli altri.
Porta il tuo paese in testa come si porta
l’immagine dell’amata.
Esci, vai nella piazza tua o di un paese vicino,
vai nella piazza degli altri,
mai ti mancherà una bella vista. (Vento forte, 5)
Salvatore Ritrovato