“Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre…” (Gen 12,1)
In questi mesi, in queste settimane, in questi giorni, più e più volte nel tempo della preghiera e nel tempo delle quotidiane occupazioni, mi tornavano alla mente e risuonavano in un cuore lacerato, queste parole del Signore ad Abram.
In questo tempo mi è sembrato di essere in lotta come Giacobbe. Una notte lunga, oscura, confusa, con incubi vari. Una lotta contro le paure, le incertezze, con il desiderio fortemente inseguito di poter scoprire e con chiarezza il segno di Dio per arrivare alla pace dei sensi.
Ma queste attese e questi profondi desideri non ancora sono arrivati al traguardo, nonostante la risposta alla richiesta di una ‘obbedienza oblativa’.
Ormai il si è pieno e definitivo.
Questo sì mi accompagna da sempre: la chiamata alla fede, la risposta entusiasta e mai rabberciata al dono che il Signore Gesù mi ha fatto scegliendomi ed aggregandomi al numero dei suoi amici prediletti con il dono del sacerdozio, la chiamata al ministero episcopale che mi ha reso nomade a Termoli, a Foggia, a Manfredonia, ora a Lecce, pronto, talvolta con fatica ad accogliere sempre l’invito ad andare con il bastione in mano e la bisaccia sulle spalle.
Al Santo Padre ho dato la mia obbedienza: accepto in crucem. Ogni virtù è frutto di un impegno, di una fatica, di una rinunzia: non può essere scontata! Bisogna che si scelga di andare al di là di se stessi, al di là di facili e non turbanti acquiescenze. Bisogna fare la scelta di un’altra e alta parola e viverla come la sola che può darti ‘pace’.
I miei progetti erano altri. Da sei anni, per gli strani e incomprensibili giochi dei disegni di Dio su di me, mi hanno fatto tornare a casa, alla terra delle mie radici: ho ripreso a respirare l’aria della mia terra, i suoi profumi, le sue tradizioni, la sua sacralità, il suo mare. Mi mancheranno tante le passeggiate di prima mattina lungo il mare con la corona del rosario in mano e i volti dei tanti, pescatori e non, a cui auguravo e ricevevo il buon giorno. Ho ritrovato affetti, amicizie, legami a me familiari e mai cancellati. Per molti aspetti questo ritorno mi è costato, ma era la mia casa di sempre e dunque con entusiasmo, serenità, decisione, consapevolezza dei miei limiti e difetti, ho messo mano all’aratro senza voltarmi indietro. Questa serenità mi ha sostenuto anche nell’impatto iniziale che mi ha visto sfilare sulla massa mediatica con simpatici epiteti e tentativi vari di vietarmi di entrare nel luogo santo dalla porta occupata dai distesi per terra ma dalla finestra.
In questi sei anni ho avvertito sempre una sorta di presenza dei due Arcivescovi che hanno segnato in profondità il mio itinerario sacerdotale: Mons. Andrea Cesarano, Mons. Valentino Vailati. Spesso mi sono sorpreso, soprattutto in casa, nella cappella privata dell’episcopio, come accompagnato e protetto dalla loro presenza sempre amabile e incoraggiante.
Anche per questo siano rese grazie al Signore.
Ora devo rimettermi in viaggio verso Lecce: la distanza è notevole, ma i cuori non si misurano in chilometri, si ritrovano sempre nella intensità degli affetti, della bellezza di incontri condivisi, di comune passione per l’avvento del regno. Il cuore di chi ama con lo stesso amore di Cristo, amatevi come io vi ho amati non soffre di sclerosi. Il cuore non dimentica: ama. Siatene certi!
Sempre nella mia vita, nel mio servizio sacerdotale ed episcopale ho sentito, quasi come un sottofondo non invadente ma costante le parole di Gesù: anche quando avete fatto tutto quello che dovevate fare, dite: siamo servi inutili! E poiché non ho fatto tutto quello che dovevo fare, ho scelto per me un’altra definizione che rimane nei miei pensieri per me.
Forse vi svelo un segreto: molti anni fa, non per una mia scelta ma per gli strani giochi della Provvidenza, avevo contratto un debito con Padre Pio. Ecco perché sono tornato qui, a casa. Penso che Padre Pio, con l’approvazione del Signore Gesù, si è accontentato solo di sei anni circa per considerare estinto il debito. Non era dunque da prolungare questa mia presenza. Perciò mi è arrivata, imperiosa e chiara, la parola del Signore: “ Vattene dalla tua terra, vattene dalla tua casa, va a servirmi a Lecce”.
E come Abramo, raccolgo il poco che mi appartiene e riprendo la mia strada , verso la terra che Lui mi ha indicato, il Salento.
Il cuore, carissimi tutti, è lacerato più che mai. Il guaio è che il Signore anche con me ha tenuto fede alla promessa fatta per la prima volta a Israele: mi ha tolto il cuore di pietra e mi ha dato un cuore di carne. Ora vivo una sofferenza che talvolta è atroce. Mi avevano rimandato a casa, alla mia vera casa. Quale distacco. Vattene dalla tua casa.
Umanamente è qualcosa di incomprensibile. Da mesi vivo nella sofferenza di un cuore malmenato, ma….devo andare e, premio all’obbedienza, vivo in una serenità crocifissa!
Siatene certi: voi tutti, senza distinzioni di sorta, rimanete nel mio cuore. Se possibile, ve lo ripeto con l’Apostolo Paolo: fatemi posto – anche se piccolo – nel vostro cuore.
Nelle prossime settimane avremo tempo e modo per guardare con speranza al futuro, ma soprattutto per non arrestare e fermare il passo, rimanendo in una sorta di snervante e vuota attesa.
Vi dico grazie per il tanto che mi avete donato.
Vi chiedo scusa per il poco che vi ho restituito.
Vi domando perdono se in qualche scelta, atteggiamento o decisione, non sono stato di buon esempio.
Vi invito a continuare ad amare la Chiesa, madre a volte difficile da capire, ma sempre da amare.
Vi esorto: continuate a camminare con serenità , per quanto possibile, con serenità , fidandovi del Signore che se toglie è per dare qualcosa in più .
Spesso vi ha fatto la mia professione di amore, vera, sentita, profonda, totale. Ve la rinnovo in questo momento per me ma ne sono sicuro, anche per voi, di grande sofferenza e lacerazione ma anche di grande abbandono a Colui che mi ha scelto fin dal seno di mia madre.
Restate con me!
Vi porterò sempre all’altare del Signore!
Vi voglio bene!
Manfredonia 9 aprile 2009, Giovedì Santo
+ Domenico Umberto D’Ambrosio