di Berto Dragano
Confesso: sono uno di quelli che si siede sulle panchine pubbliche. Sui poggi panoramici, nei parchi, nelle piazze e nei viali, in mezzo al traffico cittadino, di fronte ad un panorama, ovunque.
Una confessione che non tutti fanno con piacere. Perché da qualche tempo chi si siede su una panchina, nelle nostre città, più che anonimo diventa invisibile. Oggi stare in panchina è un’anomalia sociale. Chi si siede si sottrae non solo alle regole non scritte dell’efficienza, ma allo sguardo degli altri.
Se non si è anziani, donne incinte o con carrozzina, chi sta in panchina è poco raccomandabile. Nel migliore dei casi si è disoccupati, sfaccendati, vite di riserva. Eppure è l’ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città.
La panchina è il margine del mondo, vacanza di chi non va in vacanza, ma anche il posto ideale per osservare quello che accade: ovunque sia, è il centro dell’universo. Da lì si contempla lo spettacolo del mondo, ci si dà il tempo di perdere il tempo, come leggere un romanzo. Si guarda senza essere visti. Ecco alcuni dei non piccoli piaceri del sedersi su una panchina.
Le mie preferite sono quelle verdi a onda di una volta, di legno, in via di estinzione. Ma tutte le panchine sono oggi in via di estinzione. Come se la loro gratuità (la loro grazia), nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire.
Che sulle panchine soggiornino i poveri e gli extra-comunitari (qualunque senso abbia ormai questa parola: anche gli anziani sono esclusi dalla comunità dei consumatori), i barboni e i drogati, lo dicono le recenti sparizioni e divieti in alcune città del nordest. panchine eliminate per scoraggiare la sosta degli indesiderabili.
Mentre le panchine stanno scomparendo, memorizzo quelle che amo di più. La panchina sul punto panoramico del Bosco quarto, quelle del Parco del Papa dove guardo i bimbi giocare, quelle di Villa Panfili a Roma dove imparai il valore dell’ozio. Le panchine del cimitero dei poeti a Testaccio dove puoi contemplare la Piramide e il traffico irreale di auto.
Cosa c’è di più umano e universale di sedersi? Non ci sono solo le panchine dei poveri. Forse non tutti sanno ad esempio che la Juventus, la grande squadra di calcio, fu fondata su una panchina di legno di Corso Re Umberto a Torino oltre un secolo fa, e che nemmeno lo Zarathustra di Nietsche sarebbe esistito senza una panchina.
Anche nel cinema le panchine resistono al disprezzo sociale in storie che costituiscono una resistenza culturale all’omologazione, sociale e psicologica: da La venticinquesima ora di Spike Lee, dove Edward Norton medita su una panchina il suo ultimo giorno di libertà prima del carcere, a quella di Forrest Gump, eroe e quasi santo in rotta coi valori dominanti, che racconta la sua storia seduto su una panchina mentre aspetta l’autobus.
La panchina è anche un elogio della tolleranza e del multi-culturalismo nella giusta accezione, non è lassismo, ma è capacità di far convivere, rispettando le regole, persone e individui portatori di visioni del mondo diverse.
La panchina è anche politica. Perché la politica comincia proprio da come ci si mette a sedere, insieme, su una panchina…
Berto Dragano