L’urlo degli Americani: «Yes, we can»
di Leonardo Fania
«Yes, we can». Da ventuno mesi questo ormai famoso slogan è entrato nelle nostre case, ha ronzato per la nostra testa e ha posto tanti interrogativi. «Yes, we can» non è un prodotto pubblicitario né tantomeno la sigla di un qualche sconosciuto cartone animato.
«Yes, we can» è, solamente, si fa per dire, la risposta che milioni di americani hanno dato all’ultima crisi finanziaria, la più terribile dell’ultimo secolo; è la risposta ai terroristi; è la risposta che fa rivivere dopo anni e anni di appannaggio l’American Dream, il Sogno Americano.
«Yes, we can» è Barack Obama.
Dal 4 novembre 2008, Barack Obama è il 44° Presidente degli Stati Uniti d’America. E’ il presidente eletto – lo diventerà effettivamente a gennaio 2009 – che milioni di americani hanno votato per dare un definitivo calcio ai problemi che negli ultimi anni hanno messo l’America in ginocchio.
Obama ha battuto l’altro candidato alla Casa Bianca, John McCain, veterano del Vietnam, di parte repubblicana.
Lo ha battuto portando a casa il voto di 364 grandi elettori quando il quorum da raggiungere era di 270 voti; 162 le preferenze per il suo sfidante.
E’ dunque en-plein per il 47enne senatore dell’Illinois.
Per avere conferma delle proporzioni del successo di Obama basta pensare ai “miseri” 286 voti raccolti da Bush nel 2004 e ci si rende conto che il senatore nero ha sfiorato il 55% dei consensi.
«La risposta sono le code che si sono allungate fuori dalle scuole e dalle chiese con un afflusso che la nazione non aveva mai visto finora; […] è la voce di giovani e vecchi, ricchi e poveri, Democratici e Repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d’America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili: tutti americani che hanno inviato al mondo il messaggio che noi non siamo mai stati un insieme di Stati Rossi e Stati Blu. Noi siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America».
Con queste parole Obama ha aperto il lungo discorso pronunciato dopo la certezza matematica della vittoria.
Questo discorso è stato un climax di emozioni ed un grande atto di umiltà e di coerenza: Obama, infatti, sa che la vittoria è soltanto la prima parte di una «lunga salita» e che forse non basterà nemmeno un mandato per rimettere a galla la traballante barca americana, ma promette di riuscirci assieme al «suo popolo», gli Americani.
E’ un richiamo a mettere insieme un «nuovo spirito di patriottismo, di servizio e di responsabilità, nel quale ciascuno di noi decida di darci dentro, di lavorare sodo e di badare non soltanto al benessere individuale, ma a quello altrui» ed ancora a resistere alla tentazione di «ricadere nelle stesse posizioni di parte, nella stessa meschineria, nella stessa immaturità che per così tanto tempo hanno avvelenato la nostra politica».
“The Victory Election Night
La vittoria di Obama è stata acclamata in tutto il mondo come segno di cambiamento dopo «otto anni di mediocrità spacciata per grande visione morale» come scrive Zucconi. E’ stata acclamata come il riscatto contro il peggior governo repubblicano dai tempi di Hoover, “padre” della grande depressione. Ma è stata soprattutto il riconoscimento della sconfitta, dalla parte repubblicana, con un fair-play di giurassica memoria.
«Quali che siano le nostre differenze, siamo tutti americani». Queste le parole del senatore McCain, accettando la sconfitta.
E nemmeno qualche antipatico buu espresso dai suoi fan fa capitolare il senatore che stronca la “rivolta” sul nascere con un perentorio «please, please».
Ma cosa ha convinto gli Americani a scegliere un presidente democratico, il primo nero della storia?
Sicuramente il fatto di non volere la guerra in Iraq, che è costata all’America migliaia di vite umane; sicuramente i tagli alle tasse per aiutare le classi medie; ma ancor più la sicurezza che il candidato ha trasmesso alla gente.
Gli Americani si fidano di Obama e Obama ha promesso di non tradire la loro fiducia. Anche lui, come tanti, prenderà decisioni impopolari ma avrà dalla sua parte la certezza che l’American Dream si attuerà più forte che mai.
«A coloro che ci guardano questa sera da lontano, da oltre i nostri litorali, dai parlamenti e dai palazzi […] dico: le nostre storie sono diverse, ma il nostro destino è comune e una nuova alba per la leadership americana è ormai a portata di mano». E per l’Italia?