LibriAmo a cura di Renata Grifa
Sappiate che è iniziata quella parte dell’ultimo anno di superiori in cui noi insegnanti siamo ossessionati dal programma, e quindi corriamo per confondere i pregiudizi dei professori esterni o quanto meno impressionarli favorevolmente: noi facciamo bella figura e se va male è perché voi non avete studiato.
Che poi voi sappiate e abbiate capito qualcosa è secondario.
Dal mio punto di vista credo sia meglio capire in profondità una cosa, piuttosto che fingere di saperne due.
Alessandro D’Avenia
Utopico, quasi impossibile da realizzare, quindi anche quasi impossibile da credere.
È una scuola ideale o idealizzata quella che leggiamo nell’ultimo romanzo del professore e scrittore Alessandro D’Avenia, L’appello.
L’appello è quello che fa ogni giorno il nuovo supplente di scienze, il prof Omero Romeo, chiamato a sostituire un insegnante improvvisamente mancato che gli lascia in eredità dieci particolari alunni che si giocheranno il tutto per tutto nell’ultimo anno di liceo.
In una classe già di per sé problematica l’appello è diverso dal solito, non basta dire “presente” o “assente” perché il prof. Omero non può concretamente vedere i suoi ragazzi, è cieco da cinque anni ed è per questo che ogni mattina chiede ai suoi studenti di poter poggiare le sue mani sui loro volti per vederli attraverso il tatto, i ragazzi a loro volta sono chiamati a dire non solo il loro nome ma la storia che accompagna ognuno di loro.
Si dà il via così ad un racconto dove ogni ragazzo è chiamato a dare un senso non solo al nome che porta ma alla sua intera esistenza.
Facendo a pugni con il proprio dolore ognuno di loro riuscirà ad esistere perché chiamato, perché finalmente ascoltato.
Un po’ Attimo fuggente un po’ Io speriamo che me la cavo, questo racconto cade un po’ nella banalità degli stereotipi della scuola a cui ormai siamo abituati da troppo tempo. Sebbene mettere in classe, una classe-ghetto, dieci ragazzi problematici sia una chiara provocazione, affidarli al professore non vedente come metafora del vedere meglio degli altri è un tema un po’ ripetuto oltre che superato.
L’intento resta nobile, quello di una scuola che oltre ad educare le menti si occupi di nutrire i cuori, una scuola per cui i ragazzi non siano soltanto dei nomi e cognomi scritti in ordine alfabetico ma delle persone che riempiono quel nome di vita vissuta, con tutto il dolore di cui può farsi carico un ragazzo adolescente che si appresta a varcare la soglia della maturità.
E di contro dei professori che oltre a vedere dei ragazzi siano in grado anche di ascoltarli, di capire chi sono, di sapere che impossibile spiegare l’energia del sole se loro hanno dentro il buio.
“Ha ragione, Prof. Va bene. Però c’ho ragione io. Che cosa vuole che gliene freghi alla professoressa di italiano dei miei casini a casa e del fatto che non uso il congiuntivo perché sto tra gente che non lo parla neanche l’italiano, che c’ho una storia alle spalle per cui l’ultima cosa che me ne frega sono le poesie di Guido Gozzano, che era sfigato forte?”
Ci si aspettava (mi aspettavo!) qualcosa di diverso da questo autore che con altri romanzi ha così bene saputo spiegare quali siano le mancanze della scuola senza mai puntarne il dito contro.
Questo appello sembra più un trattato troppo filosofeggiante (e troppo, troppo pessimista) su delle colpe che tutto sommato vanno ben ridistribuite, tra adulti e a volte ancor di più tra i ragazzi.