Lo straniero di Albert Camus
Recensione di Toni Augello
La grandezza di questo romanzo, pubblicato nel 1942 per Gallimard ed edito in Italia da Bompiani, sta tutta nel titolo. Un aggettivo che non appare mai nel testo, ma che lo impregna a tal punto da diventare la straordinaria sintesi dello stesso. La perfetta definizione del suo protagonista. Un uomo estraneo a se stesso, al mondo in cui vive, eppure lucido, dotato di grande intelligenza e non certo privo di sensibilità, come pure appare ai più.
Un progetto letterario architettato con frasi brevi, sospese. Laconiche come scatti fotografici, ma dotate di ampie profondità. Periodi chiusi, in cui l’autore riesce a farci stare dentro al vuoto emotivo del protagonista e farci vivere il non dramma di un antieroe – figura che diverrà emblematica in tanta produzione artistica successiva – che vive al di fuori di regole e cliché.
A noi che siamo abituati a dare un senso alle cose per tradizione ereditaria, Meursault da l’orticaria.
A noi che nemmeno cerchiamo il senso delle cose, ma lo recepiamo così com’è, da fastidio la durezza di quest’uomo. Ma in fondo quello che forse ci accomuna è la stessa incapacità di avviare un percorso personale alla scoperta dell’uomo e della sua storia. Noi per abitudine, lui per scelta.
E così come noi tante volte risultiamo insensibili per assuefazione alle cose, lui è insensibile per totale premeditata indifferenza.
Così sia noi che lui rimaniamo distanti dalle cose, almeno fin quando non le andiamo incontro. E anche potrà capitare di restare del tutto indifferenti a se vivere o morire, ridere o piangere, sperare o disperare. Forse, per quanto vogliamo illuderci, non siamo cosi diversi dal protagonista. E la grandezza del romanzo sta nel venire a scompigliare l’ordinato mondo di pensieri che regola i nostri giorni, innescando la miccia del dubbio: siamo meglio di Meursault?