Quindici passi di Giuliano Foschini, recensione di Toni Augello
“Quindici passi” di Giuliano Foschini (ed. Fandango, 2009) è un libro che parla di acronimi, di morte, di vita e di speranza.
“Perché gli acronimi non stanno soltanto nelle parole degli scienziati o dei politici. Non sono sui giornali e nelle riviste tecniche. Gli acronimi si trovano anche nell’aria e per questo colpiscono tutti senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione e ceto. Gli acronimi sono democratici”.
Ed in maniera particolare si librano nell’aria di Taranto, fino a venti volte di più che nell’aria di altre grandi città sparse nel mondo. Non è un caso se a Taranto risiede l’impianto siderurgico più grande d’Europa, l’Ilva. E non solo quello.
“A Taranto ci si ammala di geografia, basta essere nati a Manduria, trenta chilometri più in là, per esser un fortunato”. Ma la fortuna è cieca. Si sa. E non guarda in faccia a nessuno. Tanto meno a chi abita a “quindici passi” dall’impianto, come i tarantini del quartiere Tamburi, costretti a stendere il bucato in casa per non ritirarlo dai balconi di un altro colore, o a scopare il balcone almeno tre volte al giorno in un gramo “ballo del minerale”, che richiama le sventure di quanti abitano ai piedi di un vulcano.
Forse per questo l’autore paragona l’impianto proprio ad un vulcano. Forse per cento altri motivi. Certamente tra questi v’è il “magma” del tanto lavoro che il vulcano contiene al suo interno. Lavoro che si traduce in stipendi, che a loro volta si traducono in tranquillità economica per migliaia di famiglie e che riescono a far dire a Nino, operaio Ilva, “Io devo portare il pane a casa. Punto. Non ci possono essere altre parole. A questo punto vuol dire che faremo come se fossimo nell’esercito, cioè noi siamo come i soldati che vanno in guerra – riferendosi ai decessi causati dal cancro che a Taranto hanno percentuali paurose, strettamente legate alle emissioni di sostanze tossiche, in particolare di diossine – uno mette anche in conto di poter morire. Soltanto che noi non combattiamo per la patria, ma per l’affitto di casa”.
Negli altri paesi europei esiste da tempo una rigida normativa in materia. In Austria il limite massimo di diossine che può esser rilevato nell’aria è di 0,4 nanogrammi al metro cubo, per esempio. In Italia non esisteva fino a qualche anno fa normativa specifica di riferimento, ed a Taranto si è arrivati a registrare fino a 8,3 nanogrammi al metro cubo della sostanza nociva. Si è dovuto mettere in moto a partire dalla fine degli anni ottanta tutto un processo, civile e giudiziario, prima ancora che politico, per approdare a qualcosa di più concreto che una formale adesione ai trattati continentali.
Perché, a volerlo, le cose si possono cambiare. Ma prima ancora che volerle cambiare bisogna conoscerle. A fondo. Con questo reportage schietto e partecipato l’autore del libro svolge un grande servizio per chi come me di Ilva ne sente parlare ormai tutti i giorni, ma in fondo non riesce a collegarsi nel modo migliore all’argomento. Troppe lacune, dal mio canto. “Quindici passi” ne colma diverse, ed è senza dubbio un valido modo per approcciarsi all’argomento in maniera diretta ed essenziale per poi approfondirlo fino agli sviluppi più recenti. “Quindici passi” possono essere la distanza dalla vita alla morte, oppure l’inizio di una nuova strada verso un progresso, e quindi un futuro, che non abbia i passi contati.
Quella dell’Ilva è una storia che non è ancora finita, ed il libro ci insegna che un lieto fine è possibile anche per le storie più brutte.