John Keats e “Le stagioni umane”
recensione di Giulia Sena
Quattro stagioni fanno intero l’anno,
quattro stagioni ha l’animo dell’uomo.
Egli ha la sua robusta Primavera
quando coglie l’ingenua fantasia
ad aprire di mano ogni bellezza;
ha la sua Estate quando ruminare
il boccone di miel primaverile
del giovine pensiero ama perduto
di voluttà, e così fantasticando,
quanto gli è dato approssimarsi al cielo;
e calmi ormeggi in rada ha nel suo Autunno
quando ripiega strettamente le ali
pago di star così a contemplare
oziando le nebbie, di lasciare
le cose belle inavvertite lungi
passare come sulla siglia un rivo.
Anche ha il suo Inverno di sfiguramento
pallido, sennò forza gli sarebbe
rinunciare alla sua mortal natura.
John Keats, “Le stagioni umane”, da Poesie, Einaudi.
John Keats (1795-1821), riversa nella sua poesia tutta la passione per l’immaginazione, l’attenzione per la lingua e una forte componente malinconica. Uno dei maggiori esponenti della poesia romantica inglese, Keats è “visceralmente” innamorato dell’ideale di bellezza, poiché è questa che fa divenire l’uomo migliore. Nelle sue odi Keats riesce a superare l’emotività “romantici sta” ed esplora con densa musicalità il rapporto tra arte e vita, piacere e dolore contribuendo in maniera decisiva alla poetica mondiale. “Io paragono la vita umana ad un vasto palazzo dalle molte stanze, delle quali solamente due posso descrivere, rimanendo le porte delle altre a me chiuse – La prima di cui varchiamo la soglia la chiamiamo la camera dei bambini, o la camera senza pensieri, in cui noi rimaniamo fino a che non pensiamo.”
Nella foto: John Keats
Giulia Siena