LibriAmo a cura di Renata Grifa
Così ha provato a essere la musica mia, Gioacchino:
armonica e dissonante, e cupa, e festevole, e malinconica, e sacra.
Ma tutti questi svolazzi, amico mio, oggi non mi sembrano che ornamenti,
ghirlande appese in un giorno di festa e poi dimenticate.
È una musica colpevole, Gioacchino: pensa ad altri mondi, ma sa soltanto ornare questo.
Andrea Tarabbia
Può un musicista raccontarne un altro?
Può un genio musicale provare tanta ammirazione per qualcuno fino a volerne erigere un Monumento della Musica?
Sì, se a farlo è il coraggio di un autore come Andrea Tarabbia (Premio Campiello 2019) che, indagando in una delle storie meno note della letteratura italiana, è riuscito in questo romanzo biografico a dar voce e suono ad una della figure più controverse della musica di fine Cinquecento.
E ci è riuscito attraverso uno dei generi narrativi forse assenti nella nostra cultura, quel quasi gotico ricco di umori sinistri, presagi nefasti e atmosfere oscure, ma allo stesso tempo reali, figlie di un destino che sembra già segnato.
Perché non poteva esserci atmosfera diversa per descrivere la straziante vita di tale Gesualdo da Venosa. Compositore italiano di fine Cinquecento, appartenente alla nobile stirpe napoletana dei Gesualdo, principe di Venosa, conte di Conza e Signore di Gesualdo.
Assassino di sua moglie e superbo madrigalista del suo tempo.
È il gennaio del 1960 quando giunge tra le mani di Igor Stravinskij lo scritto che getta una nuova luce su una storia controversa, la storia che parla proprio di quel musicista a cui lui sta dedicando un Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD Annum, è la Cronaca della Vita di Carlo Gesualdo Principe di Venosa del Signor Gioachino Ardytti servitore fedele.
Inizia così un alternarsi di voci narranti, quella di Stravinskij, attuale, lucida e quella del fedele e sottomesso servo Gioacchino “io sono una creatura infelice, un inscatolato, un beffato dal destino. Trovo una consolazione, a volte, restando accanto al mio padrone, ascoltandolo, consigliandogli ciò che è giusto e seguendolo anche in ciò che credo sia sbagliato. Ma è, appunto, una consolazione, non una felicità: credo anzi di non essere stato felice una sola volta – ma non è il mio ruolo e nemmeno il mio compito. Provai però qualcosa che sta vicino alla contentezza, quella sera fatale, e non mi duole confidarlo a queste pagine”.
Nasce un racconto che fa di Madrigale senza suono un romanzo colto, complesso, con una prosa elegante e raffinata che riesce a muoversi in un tempo storico preciso ma spesso non ben approfondito. Follia e musica sono le protagoniste indiscusse di questo libro, l’una genera l’altra, entrambe cura e rimedio per una malattia che pare non avere nome.
Una musica che si sente ma che sembra non avere suono, come il genio da cui scaturisce sembra essere presente ma è in realtà in un altrove che non ci è dato conoscere, chiuso in un dolore che è precluso al resto del mondo.
“quello che non ti dissi è che il motivo per cui io odiavo quei versi…è che io ho invidiato messer Torquato fin da quando l’ho conosciuto….l’ho invidiato per il dolore che egli ha vissuto….della naturalezza con cui egli soffriva e che era in grado di rovesciare nei suoi versi migliori”
È così? È solo da un grande dolore che può nascere l’opera di un genio?
Credo sia questo il dubbio con cui Andrea Tarabbia ci lascia.
Come in un gioco di scatole cinesi, una dopo l’altra, fino all’ultima, fino alla più piccola, fino alla fine dell’ultima nota.