di Andrea Tornielli ( “Il Giornale”)
C’è un ultimo segreto sulle stimmate di Padre Pio da Pietrelcina, il santo del Gargano venerato da milioni di persone in tutto il mondo. Un segreto legato a quattro grammi di acido fenico, che il giovane frate richiese a una farmacista nel 1919. Si tratta di una vecchissima testimonianza, ben conosciuta e analizzata a fondo da quanti hanno lavorato al processo di beatificazione, rimasta però inedita negli archivi del Sant’Uffizio. Aiuta a chiarire le accuse lanciate nei primi anni Venti contro Padre Pio da padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, il quale, pur senza esaminare le piaghe che si erano da poco prodotte sulle mani e sui piedi del frate stimmatizzato (perché quest’ultimo si rifiutò di mostrargliele in mancanza di un ordine scritto del Vaticano), concluse che le ferite non erano soprannaturali ma frutto di autolesionismo e isteria. Accuse che sono state ampiamente smentite da diverse successive analisi ed esperimenti. Ma ora sta per uscire un saggio dello storico Sergio Luzzatto che riaprirà la polemica. Il titolo è: L’altro Cristo. Padre Pio e l’Italia del Novecento. L’autore ha consultato le «carte segrete» degli archivi vaticani. E da lì ha preso la storia dell’acido fenico e della farmacista.
Il documento è stampato in un fascicolo del Sant’Uffizio del marzo 1921. A riprova dei dubbi sollevati da Gemelli, l’allora Suprema Congregazione dottrinale presenta la deposizione giurata della ventottenne Maria De Vito: «Io sono stata un’ammiratrice di P. Pio e l’ho conosciuto di presenza la prima volta il 31 luglio 1919. Dopo essere ritornata sono rimasta a San Giovanni Rotondo un mese. Durante il mese in cui ho avuto occasione di avvicinarlo più volte al giorno, ne ho riportata sempre ottima impressione. La vigilia della mia partenza per Foggia, il P. Pio mi chiamò in disparte e con tutta segretezza, imponendo il segreto a me in relazione anche agli stessi frati suoi confratelli, mi consegnò personalmente una boccettina vuota, richiedendomi che gliela facessi pervenire a mezzo dello “chauffeur” che presta servizio nell’autocarro per trasporto passeggeri da Foggia a San Giovanni Rotondo con dentro quattro grammi di acido fenico puro, spiegandomi che l’acido serviva per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizi. Insieme mi venivano richiesti altri oggetti come pastiglie Valda, nasalina, etc. che io mandai». Il documento del Sant’Uffizio continua informando che dopo circa un mese la giovane ricevette una lettera nella quale «le faceva richiesta di quattro grammi di veratrina. Non avendola trovata nella farmacia di sua proprietà, la richiese da un suo cugino con lettera che sta pure agli atti. Questo, impressionatissimo, la rifiutò», perché sospettava che Padre Pio potesse usarla per procurarsi le lesioni alle mani di cui già si cominciava a parlare.
È noto che queste testimonianze arrivarono in Vaticano perché presentate dall’arcivescovo di Manfredonia Pasquale Gagliardi, nemico giurato di Padre Pio e artefice della «prima persecuzione» contro il frate, del quale diceva: «Si procura le stimmate con l’acido nitrico e poi le profuma con l’acqua di colonia». Ecco dunque su quali (labili) basi faceva queste affermazioni. Che peso dare, allora, a questa testimonianza? Non esiste alcuna prova che quei quattro grammi di acido fenico – sostanza con proprietà antisettiche, usato solitamente come disinfettante – siano stati adoperati dal futuro santo per provocarsi le ferite. E dalle migliaia di pagine del processo canonico emerge un’altra verità. Le stimmate di Padre Pio furono esaminate attentamente dal professor Festa, che il 28 ottobre 1919 scrisse una dettagliatissima relazione accertando che esse «non sono il prodotto di un traumatismo di origine esterna, e che neppure sono dovute all’applicazione di sostanze chimiche potentemente irritanti». Anche il dottor Bignami fece un esperimento sulle mani di Padre Pio, sigillando le sue piaghe per due settimane, con tanto di firme di controllo. Alla riapertura delle bende, sanguinavano come il primo giorno e non si erano né rimarginate né infettate. La prova dell’inconsistenza dell’accusa sta proprio in questo: se il frate si fosse procurato con l’acido le piaghe, queste si sarebbero chiuse oppure sarebbero andate in suppurazione. Per cinquant’anni, invece, sono rimaste inspiegabilmente aperte e sanguinanti.
Tratto da ilgiornale.it