di Sergio Luzzatto
dal corriere.it
«Voi Ebrei fate tutto per farvi odiare. A che pro infangare il Nome di Padre Pio, segno di devozione di milioni di cattolici, che Le ha fatto Padre Pio? per infangarlo, per farvi odiare di nuovo e disprezzare, non aveva Lei altri argomenti di cui scrivere? Non c’è verso che impariate la lezione: distruzione di Gerusalemme e del Tempio, diaspora, shoah, persecuzioni ecc. (e me ne dispiace) niente da fare siete Gente di dura cervice come vi chiama Gesù, cattivi dentro e brutti fuori come i rossi, di cui siete emuli, stessa pasta. Brutta gente, e peraltro un libro pieno di fesserie e falsità».
Questo — debitamente firmato — è soltanto uno dei molti messaggi che ho ricevuto nei giorni scorsi, a seguito delle anticipazioni di stampa relative al mio libro su Padre Pio. Volume disponibile in libreria da stamattina, ma di cui tanti sembrano essersi già fatti una (pessima) idea. Come il signore che mi ha suggerito di versare sulle mani mie e sui piedi miei l’acido fenico forse impiegato da Padre Pio: «Prova quello che dici, se anche a te vengono e perdurano le stigmate», altrimenti «dovresti gettare i tuoi trenta denari raggranellati, prendere una fune e seguire l’esempio del tuo illustre, ma infausto predecessore, Giuda, l’Iscariota». O come il responsabile di una sedicente Lega cattolica anti-diffamazione, che senza nulla conoscere del volume lo ha pubblicamente definito «un libello anticattolico», invitando «il prof. Luzzatto a dedicare le proprie energie allo studio della propria religione». Per fortuna, i messaggi che ho ricevuto non sono tutti come questi. Non riflettono soltanto l’inconsistenza culturale di chi si esprime sul merito di un libro senza neppure averlo avuto in mano. Né parlano soltanto il gergo dell’intolleranza, un livore antisemita tanto usualmente volgare quanto singolarmente déplacé, dal momento che quella ebraica non è la mia religione.
Altri messaggi parlano una lingua diversa. Più amichevole, e magari più commovente. Come la lingua — incerta nell’ortografia — del signor Giuseppe, che mi ha scritto dall’Olanda per raccontare («mi piacerebbe sapere il suo parere ») un miracolo recente del frate con le stigmate. «Io mi sono recato da padre pio a san giovanni rotondo ed o fatto delle foto con il mio cellulare nella cella del santo padre. quando sono tornato in olanda mi sono accorto che nella cella ce il santo padre che siede difronte alla finestra. io o pensato che poteva essere un riflesso di un quadro fuori dalla cella, percio mi sono recato di nuovo a san giovanni rotondo per verificare ma non ce nessun quadro che poteva riflettere. io o scaricato la foto sul computer».
Dedicarmi allo studio della figura di Padre Pio mi sarà servito, se non ad altro, a entrare in contatto con i signori Giuseppe. Non con i vip, ma con i fedeli qualunque del cappuccino con le stigmate, con il gigantesco sommerso di una devozione popolare. Mondo più genuino, più dialogante, migliore di quello che accede direttamente alla grancassa mediatica, e che brandisce lo sfollagente più diffuso nell’Italia di oggi — la logica dell’appartenenza, o l’ossessione dell’identità — per denunciare un libro di storia come l’arma di un bieco «attacco a Padre Pio». Inoltre, studiare la vicenda del frate sanguinante mi sarà servito ad apprezzare tanto più la correttezza di certi padri cappuccini della provincia di Foggia, che hanno atteso di leggere il libro (sulle bozze) prima di giudicarlo, e hanno poi raccolto l’occasione di uno Speciale Tg1 per riconoscere nel mio Padre Pio «un lavoro serio e rigoroso ». Mettiamo le cose in chiaro. Il libro non aspira a stabilire una volta per tutte se quelle di Padre Pio siano state vere stigmate, o se Padre Pio abbia compiuto veri miracoli. Perché non è questo il terreno sul quale deve misurarsi uno studioso di storia.
Certo, il lavoro di ricerca negli archivi può consentirgli — com’è stato nel mio caso — di scoprire documenti inediti che attestano realtà meno incantate di quelle agiografiche. Richieste sotto banco dell’uno o dell’altro prodotto farmaceutico. Bassa cucina del prodigioso, tra conversioni e ritorsioni, pellegrinaggi e sciacallaggi, congiure ed abiure. Ma non compete allo storico del Novecento italiano decidere se Padre Pio sia stato davvero un «altro Cristo», esattamente come non compete a uno storico della Grecia classica decidere se Giove abitasse davvero sull’Olimpo. In sede storica, quello che importa è ricostruire le circostanze attraverso le quali uno dei numerosi taumaturghi che il Mezzogiorno d’Italia ha prodotto nei secoli, un frate insieme rude e buontempone, diretto e levantino, ordinario e carismatico, è potuto diventare Padre Pio. Cioè un fenomeno di immensa portata spirituale e temporale. L’oggetto di una devozione ormai senza eguali nella pratica della fede cattolica, e il soggetto di un business economico senza più limiti né frontiere.
Importa capire che cosa abbia reso possibile tutto questo, da un’epoca all’altra della nostra storia novecentesca: dal trauma collettivo della Grande guerra all’abbraccio clerico-fascista tra Chiesa e regime, dall’andata al popolo della Democrazia cristiana fino all’odierno new age del miracolismo. Importa scomporre la miscela di vecchio e nuovo, premoderno e postmoderno, istituzionale e irregolare, ragionevole e improbabile, sacro e profano, che ha fatto di Padre Pio ( dixit Giulio Andreotti) un personaggio decisivo per l’Italia del XX secolo, «l’evento più importante dal 1900 a oggi». Per svolgere un lavoro del genere a poco servono le carte d’identità spirituale, ancora meno gli autocertificati di garanzia confessionale, meno che mai le attestazioni di appartenenza politica. Poco conta che il ricercatore si senta credente oppure agnostico, partecipi di una tradizione cattolica o ebraica o musulmana, si dica di centro, di destra o di sinistra. Perciò, fanno sorridere i commenti di alcune testate nazionali, che a proposito del mio libro hanno titolato strepitando «Padre Pio, il santo che non piace ai progressisti». Se fatta bene, la storia non è progressista né reazionaria, è semplicemente buona storia. Insigne studioso dell’Illuminismo, Franco Venturi amava ripetere — gustando il sapore del paradosso — che «fare lo storico è semplice: basta leggere tutto, e controllare le citazioni».
Personalmente, non pretendo di avere letto tutto su Padre Pio da Pietrelcina, benché confidi di avere controllato con scrupolo le citazioni. Ma è pur vero che per scrivere il libro ho lungamente scavato negli archivi. Sono stato il primo storico che il Vaticano abbia autorizzato a consultare il fascicolo inquisitoriale su Padre Pio, nel quale si trova l’evidenza documentaria dei sospetti che il Sant’Uffizio coltivò per decenni sul conto del frate stigmatizzato. Ho scoperto nell’Archivio centrale dello Stato di Roma le tracce della collaborazione fornita all’Ovra dal principale promotore della devozione garganica, Emanuele Brunatto. Ho ritrovato in un paesino della Francia centrale, negli archivi della Justice Militaire, le prove che la Casa sollievo della sofferenza (l’ospedale di Padre Pio) nacque grazie ai soldi guadagnati da Brunatto come collaborazionista, un principe del mercato nero nella Parigi dell’occupazione tedesca. Ho sbrogliato da New York, negli archivi delle Nazioni Unite, i fili della connection che permise alla Casa sollievo di prosperare, attraverso un accordo fin troppo riservato fra la Dc di Alcide De Gasperi e la segreteria di Stato vaticana di Giovan Battista Montini. Nulla di tutto questo era mai stato raccontato — e forse neppure sospettato — da centinaia di zelanti pseudo-biografi di Padre Pio. Il che non significa che io abbia ragione e loro abbiano torto. Significa solo che svolgiamo mestieri diversi. Io faccio lo storico, loro fanno gli agiografi.
Sergio Luzzatto
30 ottobre 2007
Fonte: www.corriere.it