di Matteo Fiorentino
Il bisogno di sentirsi inserito in una Storia è una prerogativa dell’uomo. Non c’è comunità, piccola o grande, che non avverta la necessità di sfogliare le pagine del proprio passato alla ricerca di un’identità o, più semplicemente, delle cosiddette radici. A volte il concetto di “radici della storia” fonda quest’urgenza di andare a ritroso nel tempo; operazione che il più delle volte è effettuata dallo storico. Premesso che uno storico è naturalmente fornito di una personalità individuale, può spesso capitare che egli si trovi di fronte ad un bivio: o mette la sua sensibilità al servizio della comprensione di singoli quadri di storia, senza pretendere di scorgere necessariamente un disegno superiore nel proprio operato, o si lascia irretire dal ciceroniano historia magistra vitae, cedendo alla tentazione di asservirsi alla ricerca del “grande passato”, spinto da una forte tensione provvidenziale.
Questa differenza di approccio la si avverte maggiormente nel panorama della cosiddetta “storia locale”, che, pur marginale alle “grandi” vicende del passato, ha in sé tutte le componenti del “farsi storia” di un popolo. Oggi più che mai la storia locale è preziosa. Non è solo ai personaggi illustri, isolati medaglioni dell’agire storico, che bisogna guardare: a condizionare le vicende e lo svolgimento del processo e delle strutture storiche è spesso la vita quotidiana, l’agire comune, il sentire “domestico” delle comunità. Lo storico deve essere pronto a padro-neggiare tutti gli ambiti del fare dell’uomo, scegliendo serenamente il punto di osservazione che ritiene più opportuno al progredire del suo operato.
La ricerca si appoggia di volta in volta a fenomeni diversi, utili per comprendere la distribu-zione degli uomini e il loro avvicendarsi sul palcoscenico cronologico che si va ad esaminare. E’ un percorso a temi quello che dovrebbe oggi interessare chi vuole occuparsi della storia di una comunità: dalla viabilità al condizionamento naturale, dalla presenza di stimoli esterni alle dinamiche produttive, ecc. In questa direzione bisognerebbe andare anche nella ricostruzione della storia della nostra comunità, abbandonando definitivamente la visione post-risorgimentale della storia événementielle che c’era nel progetto “municipalistico” dell’arciprete Francesco Nardella alla fine dell’Ottocento. Una visione apologetica delle “patrie vicende”, che celebra i fatti illustri del proprio “orticello storico”, può essere paragonata a quello che fanno gli istituti di araldica prezzolati, che inevitabilmente scoprono in tutte le famiglie ascendenti e titoli nobiliari.
Un’altra storia locale è possibile, ed è stata tentata. A San Giovanni Rotondo il panorama storiografico si è arricchito notevolmente in questi ultimi anni, anche se purtroppo i risultati spesso non si vedono, in un ambiente tuttora dominato da una storiografia di matrice pesan-temente municipalistica e completamente asservita alla “tradizione”. Ecco in sintesi le acquisizioni più significative: nuove ricerche di topografia storica hanno chiarito il ruolo svolto dal nostro territorio nelle dinamiche insediative comuni a tutto il Gargano, dalla Preistoria fino all’Età medievale; la scoperta del Battistero di San Giovanni Battista (la Rotonda) ha permesso di formulare su basi nuove le problematiche della cristianizzazione delle comunità rurali all’epoca dei Longobardi, rivelando significative analogie con quanto accadeva, in termini di architettura religiosa, sulla sponda orientale dell’Adriatico; la rilettura delle fonti documentarie di Età me-dievale ha ampliato le conoscenze delle motivazioni che hanno portato il Casale di San Giovanni Rotondo a distaccarsi dall’Abbazia di San Giovanni in Lamis per diventare un importante centro propulsore di economia agro-pastorale alla metà del 1300; nuove prospettive di ricerca si sono rivelate anche per quello che riguarda la Storia Moderna, grazie al prezioso contributo offerto dalla collaborazione tra gli storici operanti sul territorio e l’Università di Bari; da anni numerosi volumi circolano con le notizie date da questo nuovo corso degli studi storici. Insomma, ce n’è a sufficienza per tagliare il cordone ombelicale che ci lega alla tradizione. Siamo ormai in grado di affrancarci da una visione passata e passatista della nostra storia. E pazienza se gli studi mostreranno che i nostri antenati non erano gloriosi eroi, profughi invitti della guerra di Troia, o prodi e indomiti resistenti, in grado di tener testa agli eserciti del Regno di Napoli e dintorni!
Una resa schematica e di più immediata comprensione del quadro finora disegnato, può essere in sintesi questo “decalogo” delle cose da fare per migliorare gli studi storici a San Giovanni Rotondo:
1. La storia è una scienza. Abbiamo il dovere di professionalizzare le personalità che se ne occupano; questo settore non va trattato alla stregua di un dotto passatempo da lasciare a a professionisti, in pensione o no, del tipo avvocati, ingegneri, medici; costoro sono sicuramente bravissimi nella loro professione ma è probabile che lascino un po’ a desiderare per quello che riguarda la conoscenza della metodologia storica.
2. La scuola ha il dovere di potenziare l’insegnamento della storia locale. Ciò è tra l’altro raccomandato nei programmi ministeriali. Ma per far questo la scuola deve finalmente aprirsi alla comprensione del mutato panorama storiografico, magari attraverso corsi di aggiornamento.
3. Bisogna promuovere l’interesse per gli studi storici attraverso iniziative concrete; convegni, conferenze, pubblicazioni di più ampio respiro condotte in collaborazione con specialisti… non lesinando sui fondi necessari. Queste cose si fanno dovunque in Italia… tranne che a San Giovanni Rotondo!
4. La vecchia storia municipalistica non serve più. Superiamola, inquadrando le vicende di vita della comunità nel più ampio contesto territoriale; mandiamo in pensione miti ed eroi, demoni e dei che non hanno più ragione di esistere.
5. Il campanilismo ci ottunde. Non dobbiamo aver paura di confrontarci con il mondo e-sterno, con le Università e gli enti di ricerca: permettiamo agli studiosi che vogliono aiutarci a farlo; occupiamoci con loro delle nostre vicende.
6. Nessun timore o sentimento di quieto vivere se c’è da contrastare approcci storici non corretti. L’ipse dixit come dogma è deleterio per la Cultura, tanto più negli studi storici! La storia falsa, i documenti falsi, le cartine false o manipolabili alla bisogna, anche se non uccidono nessuno e non tolgono soldi a nessuno, ledono gravemente la dignità del popolo; difendiamo la nostra credibilità anche al di là del “tuppo”.
7. Anche per la storia vale il concetto di specializzazione. Uno storico non può occuparsi tout court di tutto, dalla Preistoria ai nostri giorni; ogni settore presuppone mezzi e metodi diversi e tecniche diverse che consentono di padroneggiare i vari aspetti della ricerca.
8. Prendiamo serenamente coscienza di chi siamo e di chi siamo stati. Non c’è da vergognarsi di essere discendenti di pastori piuttosto che di una nobile stirpe di guerrieri. Se vi dicono che eravamo in grado di tener testa per mesi e mesi ad eserciti agguerriti, o di imporre il nostro punto di vista a tutto il Regno di Napoli, non credeteci: ciò non è vero.
9. Abbiamo il dovere di valorizzare i segni della storia. Rispettiamo le chiese, rispettiamo il centro storico, procediamo a restauri giudiziosi e non imponiamo il nostro punto di vista a tutti i costi. Non è bello, ad esempio, che la trecentesca chiesa di Sant’Onofrio sia attribuita a Federico II di Svevia, o che un battistero medievale subisca un’assurda procedura di “paganizzazione”, solo perché c’è qualcuno che in passato ha pensato così.
10. Impariamo ad ascoltare più campane; non diamo nulla per presupposto; concediamo sempre diritto di replica; non temiamo di confrontarci su giornali, in pubblica confe-renza, in piazza, nel palazzo municipale, ecc. Il pettegolezzo di paese non ci aiuta a comprendere quello che siamo stati… per lo meno se ci muoviamo in previsione di un futuro migliore.
Matteo Fiorentino