Un convento, due santi, un unico work in progress: il sollievo della sofferenza del malato
San Giovanni Rotondo nasce sulla via Longobardorum, la via che percorrevano i pellegrini in viaggio verso la grotta di San Michele Arcangelo già dal 5° secolo.
Come tutti gli agglomerati urbani nati intorno all’anno mille, il paese ha vissuto le vicissitudini della storia del meridione d’Italia lungo tutto il medioevo e i secoli successivi. Il convento di Santa Maria delle Grazie viene costruito, fuori dalle mura, nella prima metà del 16° secolo. I frati cappuccini sin dall’inizio ne presero possesso. Il convento, qualche anno dopo, nel 1575, ospita per una sola notte un giovane, avvezzo a tutte le tendenze più cult dell’epoca: gioco, avventure, mercede, ma ancora con un tormento interiore e alla ricerca della sua vera strada, quella strada che la madre aveva intravisto per lui in alcuni segni premonitori alla sua nascita.
Il giovane è Camillo de Lellis. Camillo dopo quella notte in convento intraprende una nuova vita che lo porterà alla santità. Lo trasforma nel gigante della sanità, il santo che crea una professione applicando un metodo di lavoro a ciò che era semplicemente un esercizio di carità, e non sempre, da parte di coloro che si prestavano all’assistenza ai malati sistemati in fatiscenti ricoveri.
Metodo, tecnica e cuore nella cura del malato, che viene contemporaneamente esteso, sperimentato ed applicato agli eventi catastrofici, alle epidemie e alle guerre. Una rivoluzione, nella cura del malato e degli interventi sociali, che gli fanno meritare il titolo di Patrono della sanità pubblica e militare.
Nei secoli successivi la storia del convento segue quella di San Giovanni Rotondo, continui cambiamenti di governo e proprietà, per cui viene abbandonato e riaperto nel 1909, si può dire, giusto in tempo per ospitare questa volta un altro grande santo: San Pio da Pietrelcina. San Pio innamorato di Cristo vede nel malato il Cristo che soffre. San Pio intuisce che scienza e fede possono unirsi per il sollievo della sofferenza e costruisce un ospedale, una casa modello di sanità aperta alle più ardite soluzioni scientifiche per la cura del malato.
A quattrocento anni dalla morte di San Camillo, il suo corpo torna in convento, ripercorrendo idealmente i luoghi della conversione. Troverà luoghi modificati dal tempo, luoghi dove si sono sovrapposti e stratificati altri eventi e altre opere.
Arriva con i mezzi di trasporto di oggi, che, se a disposizione a quei tempi, avrebbero reso non necessario il suo pernottamento in convento, momento di riflessione spirituale fondamentale per la svolta della sua vita.
Non so se il luogo fisico dove si scrive la storia influenzi la storia stessa, o se sono gli uomini che popolano il luogo a scriverla, a prescindere dal luogo stesso. Io penso che la storia segni e indirizzi il cammino degli uomini che si succedono. Gli eredi di questi luoghi hanno un pesante fardello con cui confrontarsi, io spero che sappiamo essere buona pasta che lieviti su queste importanti basi storiche.
Antonio Cafaro
Antonia Siena
Vorrei comunicare a tutta la cittadinanza, il mio grande plauso a chi ha permesso la perfetta organizzazione dell’evento riguardo l’accoglienza di San Camillo nella nostra città.
In particolare, voglio ringraziare il parroco della parrocchia di San Giuseppe, Don Vincenzo D’Arienzo, che ha organizzato una celebrazione per 150 malati con sacramento dell’unzione degli infermi, quale sacramento di guarigione, con messa, condotta da camilliani con una liturgia curata, da don Vincenzo e tutta la parrocchia. Grazie. Tutti i malati sono rimasti estasiati e la grazia di Dio ci ha visitato. Ci siamo sentiti amati. Don Vincenzo è stato squisito e delicatissimo. Ci siamo sentiti amati, accolti e contenuti.
L’amore riscalda i cuori anche nella più gelida delle sofferenze. San Camillo era vivo, li con noi, ci ha raggiunti tutti tramite i ministri. Una bella emozione e grande testimonianza di fede.
Antonia Siena