Una bella ed emozionante lettera pubblicata da “Il Messaggero”
Una bella ed emozionante lettera pubblicata da “Il Messaggero”
San Giovanni Rotondo, un paese del Sud Italia di circa trentamila anime
sviluppatosi intorno a uno dei tanti miracoli di Padre Pio, l’IRCCS Casa
Sollievo della Sofferenza. E’ lì che sono stato giovedì e venerdì scorsi, è lì
che per conto dell’EFI (European Federation for Immunogenetics), la
massima autorità europea che detta le regole per lo studio dei trapianti, sono
andato ad ispezionare il Laboratorio di Immunogenetica, ispezione triennale
obbligatoria alla quale devono sottoporsi i laboratori che operano in campo
trapiantologico.
L’accreditamento EFI è una sorta di certificato di garanzia, un riconoscimento
internazionale vitale, che viene conferito a quelle strutture che dimostrano di
operare, nel pieno rispetto delle normative europee, nel campo dei trapianti
d’organo; chi non lo ottiene non è autorizzato a fornire prestazioni in questo
senso. Si tratta di un traguardo importantissimo che richiede uno sforzo
spaventoso e un livello di specializzazione altissimo da parte degli operatori
sanitari che lavorano nell’immunogenetica.
In Italia i laboratori accreditati dall’EFI sono 65 e di questi solo 12 sono
nel Sud: a farla da padrone, infatti sono i laboratori del Nord. E’ il solito
problema atavico del nostro paese per il quale, più che celebrare l’unità
nazionale, bisognerebbe trovare il sistema di arginare la sempre più spiccata
disomogeneità, anche in campo scientifico. Ma questo è un discorso pericoloso,
una storia che ci porterebbe lontano, troppo per l’intento di questo articolo.
Dunque torniamo a San Giovanni Rotondo e a giovedì scorso. E’ con me un’ispettrice
dell‘Università di Sofia (le ispezioni devono sempre essere condotte da un
ispettore locale e uno proveniente dall’estero). Quando scendiamo
dall’automobile, Milena si guarda attorno con aria smarrita. Sembra chiedersi:
ma dove sono finita?
In effetti è una serata piovigginosa, umida, piuttosto fredda e ventosa. Non
c’è anima viva, il buio avvolge ogni cosa e l’immagine gigantesca di Padre Pio
sulla facciata dell’Ospedale sembra rimproverarci per il nostro scetticismo. Il
tempo di poggiare le borse nelle nostre rispettive stanze e ci ritroviamo nella
hall. “Follow me”, le dico senza aggiungere altro. Lei mi segue ubbidiente
senza domandare nulla.
La strada è in salita, poi svolta a sinistra: sulla destra l’imponente
struttura dell’Ospedale. Affretto il passo, quasi corro. Abbiamo pochi minuti,
forse una manciata di secondi, non so, non voglio guardare l’orologio. Lei mi
segue e il suo respiro si fa affannoso: dalla sua bocca esce una montagna di
vapore. Arriviamo trafelati al sepolcro di Padre Pio: è aperto. Glielo indico
con l’indice della mano destra mentre entriamo nella Chiesa Inferiore.
Lei di Padre Pio non sa nulla; è protestante e in ogni caso in Bulgaria, mi
dice, probabilmente nessuno lo conosce. C’è oro dappertutto: sui muri, sul
soffitto, dovunque. L’ambiente stride non poco con la memoria del Santo di Pietrelcina.
Mi guardo intorno: siamo soli. Mi sembra già un miracolo. Lei rimane in piedi,
io mi allontano non prima di averle chiesto due minuti di tempo. Mi siedo, lo
sguardo rivolto al sarcofago. Prego. Non lo faccio da tempo e anche questo ha
il vago sapore di miracolo. Mi viene da piangere, non so perché. La collega
bulgara mi osserva da lontano, con discrezione. Accenna ad un sorriso, come a
rassicurami, poi si volta da un’altra parte. Non mi importa che mi veda così e
anche questo mi sembra un segno, non sono abituato a manifestare a un
quasi-estraneo i miei sentimenti.
Dopo qualche tempo, certamente più di due minuti, mi alzo e la raggiungo. Le
chiedo scusa per non essere stato di parola. Lei sorride di nuovo e non dice
nulla; sembra quasi compatirmi, ma forse è una mia impressione. Andiamo a cena
con i colleghi del Laboratorio di Immunogenetica che non ci conoscono e che noi
non conosciamo se non per i nomi scritti sulla montagna di documenti che
abbiamo visionato e giudicato nei giorni precedenti l’ispezione. Sono
simpatici, un po’ imbarazzati e tesi, cosa normale visto che l’indomani
decideremo del loro futuro e degli altri componenti del Laboratorio. Non
parlano inglese e io traduco continuamente le nostre conversazioni in modo che
Milena non si senta abbandonata. Si parla sempre di Padre Pio, delle storie
raccontate da chi lo ha conosciuto, io traduco senza sosta, i colleghi
sorridono e sudano, Milena annuisce educatamente ma forse non comprende in
pieno il senso di tante cose.
Il giorno dopo, di buon ora, ci troviamo all’ingresso del Poliambulatorio. Ci
accoglie G. C., il Co-Direttore; indossa un camice che sembra appena uscito
dalla tintoria e profuma di pulito. Sorride, ma è palesemente teso. Lo
abbraccerei per la tenerezza che provo per lui, so cosa ha passato negli ultimi
mesi e vorrei confortarlo, rassicurarlo che tutto andrà bene. D’altronde i
documenti visionati parlano chiaro: il Laboratorio rasenta la perfezione,
l’organizzazione generale rispetta in pieno i parametri europei.
Saliamo al IV piano dove ci attende tutto lo staff. Sorridono tutti e ci
guardano incuriositi tentando di capire che tipo di persone abbiano di fronte.
Un breve discorso di presentazione e l’ispezione ha inizio. Decido di farmi
prelevare il sangue: io e Milena vogliamo seguire il percorso del campione,
dalla lavorazione, all’estrazione del DNA, dall’esecuzione delle indagini
genetiche alla refertazione. Man mano che si procede si capisce che ci troviamo
di fronte a personale qualificatissimo e ben preparato, un team formidabile
dove regna armonia, rispetto e soprattutto amicizia.
Così diventa un piacere girare per quegli ambienti e osservare l’andamento del
lavoro e fa un’immensa tenerezza osservare la mano tremante ma precisissima di
un ’operatrice intenta a “combattere” con il mio DNA. La visita va avanti,
piacevole e piena di conferme, lo staff si prodiga nel farci visionare ogni
cosa, nel soddisfare ogni nostra richiesta. Davvero non saprei dove “coglierli
in fallo”: sono estremamente competenti, sono supportati da una strumentazione
all’avanguardia, hanno una padronanza ed un controllo degni di strutture molto
più blasonate. Non si ha mai l’impressione che tutto questo sia il frutto di
uno sforzo durato “solo” cinque anni.
Da noi, all’Università di Roma “Sapienza”, ce ne sono voluti più del doppio… Il
tempo passa, la visita si fa sempre più piacevole e divertente. Quando ci si
imbatte in luoghi come questo, dove il lavoro è entusiasmo, si viene contagiati
e anche molto facilitati nel proprio compito di giudici severi dell’attività
altrui. L’immunogenetica non è uno scherzo; se si sbaglia il prezzo è la morte
di qualcuno che spera nella vita. Ma qui, a San Giovanni Rotondo, in terra di
Puglia, lo sanno bene. E si vede.
Lo vede anche Milena che ogni tanto mi guarda come a dire: ma noi che ci stiamo
a fare qui? Sono così soddisfatto che quasi mi dimentico del tempo che passa.
E’ ora di pranzare e dopo ci saranno da riempire i documenti dai quali dipenderà
l’esito dell’ispezione. Un lauto pranzo e si ricomincia. Stavolta ci sediamo e
compiliamo i moduli. Non ne posso più di tutti questi OK che in fila indiana,
pagina dopo pagina, si susseguono senza sosta.
Il Laboratorio è perfetto, penso, e non solo perché a cento metri c’è Padre
Pio… Si arriva alla fine, sono le quattro del pomeriggio: a parte i pochi
minuti del pranzo, non c’è stata sosta. E’ stata una bellissima ispezione: mi
sento orgoglioso e soddisfatto. Firmiamo tutti e poi chiamiamo lo staff al completo.
Entrano nella stanza in silenzio: quando alzo lo sguardo sono tutti lì, davanti
a me. Ci sono occhi che luccicano, dita che nervosamente sfregano dita, respiri
trattenuti.
Milena fa un breve discorso, in inglese, che non voglio tradurre per non interferire
con la magia del momento. Parla lentamente e tutti la capiscono. Poi tocca a
me. Vorrei dire molte cose, vorrei ringraziarli e abbracciarli, uno ad uno,
vorrei che fossero consapevoli della loro bravura, dell’impegno, della serietà
e della qualità del loro lavoro, del dono che hanno fra le mani. Non so se ho
usato le parole giuste, non so se sono stato abbastanza incisivo, se ho dato
l’idea della mia soddisfazione nell’accreditare una struttura del Sud, dove,
per comune convenzione, tutto fa schifo. No, non è così.
Qui c’è l’eccellenza, qui c’è un team fantastico che ha davanti un futuro
meraviglioso, qui c’è l’Italia seria, quella che crede in ciò che fa e che ama
ciò che fa.
E allora grazie, a tutti voi del Laboratorio, per l’orgoglio che mi avete fatto
provare, per la lezione di umiltà ma allo stesso tempo di grandissima serietà,
grazie per rappresentare in questo modo l’Europa, sì, l’Europa con la E
maiuscola. Grazie per essere come siete, per avermi accolto non come colui che
viene a rompere le uova nel paniere, ma come un amico di vecchia data, grazie
per avermi fatto sentire parte del vostro gruppo, anche solo per poche ore.
Grazie davvero.
E come ho già scritto a chi non ha dormito per notti, prima dell’ispezione, vi
porterò sempre nel cuore, d’altronde ci siete stati dal primo momento in cui ho
giudicato il vostro operato solo sulla carta, ma questo non lo dovevate sapere…
Dr. Luca Laurenti
tratto da ilmessaggero.it