di Enrico Ciccarelli *
Un collega l’ha definito giustamente un “mantra”, l’espressione sacra tipica dell’induismo che si recita senza necessariamente conoscerne il significato, per entrare in contatto con la divinità. Non c’è pubblico amministratore, dal sindaco di Roccacannuccia al presidente del Consiglio, e questo solo per limitarsi all’Italia, che di fronte alle difficoltà e al malcontento, non dica “non siamo capaci di comunicare ciò che facciamo”.
L’ultimo in ordine di tempo a pronunciare questa giaculatoria è stato il sindaco di Foggia Gianni Mongelli, esaltando le conseguenti logiche da pollaio della nostra categoria, pronta a dare addosso a colui che ha avuto la ventura di essere scelto intuitu personae dall’Ente di turno, con la segreta speranza di potergli succedere. Ora, non c’è dubbio che ci sia molto da dire sulla drammatica involuzione del ruolo e della dignità professionale dei comunicatori scelti dagli Enti pubblici; c’è una corsa al ribasso in qualche caso oscena, con l’abbandono di qualsiasi logica o criterio che leghi una prestazione ad una retribuzione. Punta avanzata di questo attacco selvaggio alla professione, con compensi degni della Corte dei Miracoli, è la Provincia di Foggia, ma su questo preferisco non esprimermi perché sono in qualche modo toccato personalmente dall’argomento.
Il nodo cruciale, però, non riguarda i giornalisti, perché la loro quantità o qualità influisce certamente sulla maggiore o minore efficacia dell’atto comunicativo, ma non la determina. A determinarla, ed a determinarla in peggio, è la totale inconsapevolezza che gli Enti pubblici hanno di cosa sia un atto comunicativo. La scuola di Palo Alto, con l’indimenticabile Paul Watzlawick (1921-2007), ha da tempo chiarito, specie in “Prammatica della comunicazione umana” che l’atto comunicativo è caratterizzato nel suo compiersi dal feedback, dal ritorno. In altri termini non si dà comunicazione quando io parlo, ma quando tu mi fai sapere che hai ascoltato. La comunicazione delle pubbliche amministrazioni non solo non ritiene indispensabile questo ritorno, ma dubita della sua esistenza e probabilmente lo ritiene un fastidio. È legata invece ad una logica monodirezionale, con qualcuno (il Potere) che parla e tanti altri che ascoltano.
Il burocratese, le misteriose formule del politichese, i mille mascheramenti con cui la pubblica amministrazione si esprime non sono, a questa stregua, una contingente difficoltà che disturba la comunicazione: sono ciò che il Potere sta effettivamente comunicando, che cioè ai cittadini è dato solo subire ed eventualmente plaudire. Che questo imperativo categorico non abbia sèguito è del tutto ovvio; quindi, siccome la comunicazione monodirezionale espressa –poniamo- da due comunicati al giorno, da un manifesto ogni tre e così via non ha funzionato, gli Enti si porranno il problema di fare quattro comunicati e un manifesto al giorno. Perché si rifiutano di comprendere che il difetto è nel manico, che essere communication oriented significa non urlare la propria verità, ma soddisfare le domande del pubblico, cosa alla quale tutti i burocrati e i politici del mondo sono sommamente allergici.
D’altronde la comunicazione criptica e propagandistica del Potere trova una sua perfetta specularità nella comunicazione disinformata e viscerale del populismo imperante. Non abbiamo assistito all’intemerata di Raffaele Vescera a Santa Chiara, ma riteniamo sia stata emblematica della futilità e dell’impossibilità di una comunicazione che non sia basata su un accordo preventivo implicito di linguaggio e di sintassi. I berci del malpancismo e il latinorum del potere, possono sembrare fieri avversari l’uno dell’altro. In realtà sono così reciprocamente utili da potersi considerare vecchi amici.
Enrico Ciccarelli
*Ringraziamo per il prezioso contributo il collega Enrico Ciccarelli, nota firma del giornalismo di Capitanata, editorialista del Mattino di Foggia.