LibriAmo a cura di Renata Grifa
Mi sdraio pancia in su e tu scuoti la testa.
“Non le guardiamo le stelle, Alì, stanotte” dici scherzando.
Non capisco cosa vuoi dire ma mi viene in mente papà
che ci spiega le costellazioni sul tetto di casa nelle serate estive.
Certe cose le aveva imparate non so dove, anche senza andare a scuola,
e diceva sempre che gli arabi erano i migliori astronomi della terra.
“Ma noi siamo persiani” gli ho risposto una volta.
“E allora? Sono bravi lo stesso.”
E mentre il mondo decide quante più persone devono restare lontane dai nostri confini ecco un libro che fa ancora sperare nell’umanità, troppo spesso dimenticata.
Alì è un bambino di otto anni che improvvisamente un giorno come un altro torna da scuola e scopre che al posto della sua casa altro non vi è che un accumulo di macerie. Un razzo, nella guerra infinita tra fazioni dell’Afghanistan degli anni ’90, si porta via quello che per un bambino è più prezioso: la serenità dell’infanzia.
Ha inizio così il lungo monologo di Alì in cui racconta, rivolgendosi all’amato fratello Mohammed, quello che i due hanno dovuto affrontare per sopravvivere ad un destino che per loro sembra già segnato.
Dal Pakistan all’Iran, poi la Turchia, la Grecia e infine l’Italia, attraversando montagne o deserti e subendo le umiliazioni più indegne per dei ragazzi “da dove venite? Ripete il poliziotto mentre mi schiaccia un piede. Siamo terrorizzati. Qual è la risposta giusta? Qual è il paese che ci farà prendere meno botte?” sempre senza mai perdere la speranza, senza perdere il coraggio, ma spinti da un legame che va oltre i fallimenti e da una promessa che torna ogni volta che tutto sembra perduto, “non dimenticarlo Alì noi siamo come uccelli e voliamo lontano”.
Un racconto che non può lasciare indifferenti quanti hanno alle spalle la certezza di una patria, di una casa, di una famiglia e non sanno cosa possa significare scappare alla ricerca di una speranza, di una vita migliore “ci parla di emigrati usa spesso la parola disperati, ma quello che invece penso oggi […] è che non c’è niente di più simile alla speranza nel decidere di emigrare: speranza di arrivare da qualche parte migliore”.
Sono tanti i libri e racconti che possono collocarsi a quello che potremmo chiamare il “filone dell’infinita guerra afghana”, ma ciò che colpisce di questo libro è la scrittura talmente semplice e non romanzata che fa subito temere che quello che stiamo leggendo sia una confessione a cuore aperto di fatti realmente accaduti e ci si sorprende ad imbattersi in questo viaggio lungo cinque anni visto dagli occhi di un bambino clandestino.
Da leggere perché è un libro che restituisce verità.
È da leggere perché apre un punto di vista differente sulla piaga dell’immigrazione clandestina.
Ed è da leggere perché quando la speranza vince la vita sembra più semplice e se poi a vincere è quella di un bambino nulla sembra impossibile.