Come apprendono i bambini l’aggressività?
A cura del dottor Antonio Pio Longo
Psicologo del lavoro e delle organizzazioni
In questo articolo e nei successivi parleremo di apprendimento. Vedremo quali sono state le ricerche scientifiche e gli esperimenti che ne hanno messo in luce gli aspetti di base influenzando sostanzialmente tutti gli altri studi successivi. L’arco di tempo che andremo a rivivere in questo articolo e nei prossimi va dagli inizi del 900 agli anni settanta. Cominceremo al contrario iniziando prima dagli esperimenti più recenti per poi tornare indietro nel tempo, arrivando fino in Russia, dove vedremo uno studio famosissimo sull’apprendimento condotto da uno scienziato premio Nobel del 1903, Ivan Pavolv, che ha visto come protagonista un cane e la sua salivazione. Alcuni di questi esperimenti sono molto famosi proprio perché hanno dimostrato chiaramente alcuni aspetti fondamentali dell’agire umano.
Ho deciso di partire dagli anni settanta e andare all’indietro perché l’esperimento sull’aggressività di cui parleremo oggi mi sembrava più attinente ai fatti recenti, precisamente al femminicidio di Giulia Cecchettin che ha visto coinvolti purtroppo due giovani ventenni.
Per iniziare questo viaggio all’indietro nel tempo ci spostiamo in Canada, dove nel 1925 nasce Albert Bandura, uno psicologo che diventerà un punto di riferimento per la ricerca sull’apprendimento dell’aggressività nei bambini. Il suo contributo alla psicologia ha permesso di adottare una visiona nuova sull’apprendimento, cioè sul “come” impariamo a comportarci e “come” impariamo (o meno) la gestione delle emozioni.
Prima di Bandura, quindi fino agli anni sessanta, l’apprendimento era spiegato dalla teoria comportamentista che si basava sull’esperienza diretta, cioè si basava sui risultati ottenuti in seguito ad un’azione: se l’azione ha successo e funziona, quindi ottengo quello che cercavo (premio/ricompensa), allora va ripetuta in futuro e sarà appresa e riutilizzata; se non funziona e quindi non ottengo il mio premio/obbiettivo ma piuttosto una punizione/dolore, faccio altri tentativi riprovando fin quando non ottengo di nuovo quello che cercavo. Questo andare avanti per prove ed errori fin quando si ottiene il risultato sperato è legato ad un’azione, all’esperienza diretta che si deve affrontare per capire se l’azione funziona o meno.
Negli anni che vanno dal 1961 al 1963, Bandura ha condotto un esperimento chiamato “La bambola BOBO” in cui ha dimostrato che è possibile apprendere, quindi imparare, anche senza esperienza diretta e quindi a prescindere dai premi e dalle punizioni e dalle prove ed errori che nascono dalle azioni che mettiamo in campo, che restano comunque parte dei processi basilari dell’apprendimento, che generano schemi comportamentali dell’agire umano, ma c’è di più.
Nuovi comportamenti possono essere appresi mediante la semplice osservazione dei comportamenti altrui, attraverso l’imitazione e/o l’emulazione, quindi senza compiere un’azione ma semplicemente osservando.
Questo processo di apprendimento prende il nome di apprendimento sociale meglio conosciuto col nome di apprendimento imitativo/emulativo, che si concilia di più all’interno di una visione cognitivista per cui l’apprendimento è influenzato dalla tendenza a imitare gli altri, a emulare i loro comportamenti.
Nello studio “La bambola BOBO” Albert Bandura osservò il comportamento di tre gruppi di bambini in età prescolare:
- il primo gruppo di bambini assisteva alla scena di un uomo che metteva in atto comportamenti aggressivi nei confronti di un pupazzo gonfiabile chiamato appunto Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con un martello gridando.
- il secondo gruppo di bambini osservava un uomo intento a giocare con un altro giocattolo, senza manifestare alcun tipo di comportamento aggressivo nei confronti di Bobo.
- nel terzo gruppo i bambini invece giocavano da soli liberamente nella stanza, senza alcun adulto che fungeva da modello.
In un momento successivo a questo, tutti i bambini dei tre gruppi venivano condotti in una stanza nella quale vi erano giochi neutri (peluche, modellini di camion) e giochi che potevano stimolare comportamenti aggressivi (fucili, la bambola Bobo, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda, scudi e spade di plastica).
I risultati mostrarono che i bambini che erano nel primo gruppo, quello che aveva osservato l’adulto picchiare Bobo, manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi, sia rispetto a quelli che avevano visto il modello pacifico sia rispetto a quelli che avevano giocato da soli. È stata notata una maggiore aggressività nei bambini maschi che nelle femmine e anche che alcuni bambini avevano mostrato comportamenti aggressivi che non erano un’imitazione del comportamento dell’adulto. Questo mostrava come i bambini esposti al modello aggressivo, avevano una maggiore probabilità di agire e mettere in campo altri tipi di comportamenti aggressivi non solo imitando il modello ma anche emulandolo.
A voi le riflessioni.