“EFFETTO SPETTATORE”: comprendere il fenomeno dei TESTIMONI INDIFFERENTI
A cura della dottoressa Maria Erika Di Viesti
Psicologa clinica e della salute
Formata in Psicodiagnostica clinica e forense e Neuropsicologia clinica e riabilitativa
Sempre più frequentemente assistiamo ad un fenomeno che ci crea molti quesiti, ci chiediamo perché vi sono queste modalità, dove finisca la coscienza in quel momento e se, soprattutto, oggi siamo in grado di averne una. Ma queste sono domande un po’ “alla portata”, quelle più spontanee e generiche, oserei dire quasi naturali. Ma ora andiamo a fondo in questa problematica, cerchiamo di capire il perché e cosa spinge una persona ad osservare un evento dove qualcuno è in difficoltà e non interviene.
Oggi parliamo dunque dell’effetto spettatore.
L’effetto spettatore è un fenomeno analizzato dalla psicologia sociale, quello per cui le persone tendono a non intervenire quando qualcuno è in difficoltà o ha bisogno d’aiuto, soprattutto quando vi è la presenza di altre persone: quelli che spesso vediamo che riprendono con il cellulare risse, violenze di gruppo ecc… ma non intervengono.
Questo fenomeno venne preso scientificamente in considerazione e quindi analizzato per la prima volta negli anni ‘60, dopo il caso di Kitty Genovese, la donna uccisa a New York sotto gli occhi di tutti. Esso può essere spiegato attraverso più fattori: la mancanza di empatia, la paura di sbagliare, la conformità sociale, la diffusione di responsabilità.
A prendere in esame questo fenomeno furono due ricercatori, John Darley e Bibb Latanè, che misero in piedi una serie di esperimenti finalizzati alla spiegazione di questo fenomeno, chiedendosi se davvero le persone che non intervengono di fronte ad eventi di tale portata lo fanno perché sono “indifferenti e senza cuore”.
Invece si comprese che intervenire in caso di necessità o emergenza non è poi cosi scontato come può sembrare, e che devono crearsi le condizioni ambientali e comportamentali adatte per una efficiente reazione all’evento. Nacque cosi l’effetto spettatore, fenomeno nel quale la capacità di prestare soccorso diminuisce in rapporto al numero e alla presenza di altri spettatori. Non dobbiamo dimenticarci di una cosa importante dal punto di vista clinico: lo spettatore, all’assistere una violenza o un evento brutale, subisce un trauma. Per trauma si intende qualsiasi evento che possa risultare pericoloso per la propria vita o quella altrui.
Cosa avviene a livello cerebrale in queste situazioni?
Nella mente razionale, il cervello si “spegne” (nello specifico, le aree della corteccia cerebrale). Questa interruzione fa sì che prenda il sopravvento il sistema limbico, cioè quello che rappresenta il nostro cervello emotivo, il quale massimizza le risposte ambientali che più favoriscono la sopravvivenza. Queste sono risposte non deducibili né prevedibili, e solo il “trovarsi nella situazione” potrà mettere in luce il meccanismo di ognuno in relazione a tali eventi. Motivo per cui è spesso errato spingersi in pareri del tipo “io farei cosi in questa circostanza..” perché non è affatto un meccanismo di risposta prevedibile.
Per comprendere meglio cosa succede in queste circostanze nel nostro cervello, prendiamo in esame degli esempi semplicissimi: I mammiferi e la natura. Quali sono i meccanismi che si generano più facilmente in una situazione di pericolo di fronte ad un predatore?
Abbiamo la fuga, l’attacco, oppure il freezing.
Come dice il termine stesso, il fenomeno del freezing è una sorta di congelamento. Durante il freezing l’azione si interrompe, il corpo della vittima (del trauma) è come congelato, la mente perde la sua capacità di integrazione e dunque si dissocia dall’evento.
Questa dissociazione avviene attraverso un processo di ottundimento emotivo, il numbing, che sta ad indicare un senso di apatia e indifferenza come risposta al trauma (evento emotivo).
Ecco, in base allora a questa spiegazione, il perché dei non interventi in episodi rilevanti.
Ma ci resta comunque una domanda: perché non siamo in grado di intervenire perché freezati, però siamo comunque lucidi da essere in grado di tirare fuori un telefono e riprendere il tutto?
La risposta è semplice: lo schermo riduce l’impatto con la realtà.
Dove il trauma impedisce l’azione, e quindi favorisce il senso di colpa per non essere riusciti a fare nulla, filmare è stato un modo per fare qualcosa. Attraverso lo schermo diventano guardabili anche le immagini più orribili perché si viene a creare una parziale derealizzazione. In questo modo quella “lente protettiva” ci fa da scudo, ci fa agire con freddezza e non ci espone al pericolo direttamente. Inoltre fa in modo che quell’azione o quella persona non resti impunita perché “viene resa pubblica al mondo”.
In pratica un atto quasi protettivo verso sé stessi e verso l’altro.
In conclusione possiamo dire che ci troviamo oggi di fronte ad accadimenti dove tutti vedono ma nessuno muove un dito.
Ma ci pensiamo a quali conseguenza può avere sulla vittima questa nostra decisione?
Quel “ci pensano gli altri” che ci impedisce di intervenire, quella pubblicazione sui social ed i like non aiuteranno le vittime ad elaborare quel senso di solitudine e colpa per essere stati abbandonati nelle spire di una violenza o in balia di una umiliazione.
Un “mi piace”, fidatevi….non impedirà le conseguenze di un trauma di tale portata.