Non chiamiamoli Monelli…
A cura della dottoressa Pamela Longo
Psicologa e Psicoterapeuta
Dopo la lunga pausa, che mi sono concessa su queste pagine per la mia maternità, torno per un saluto prima della ricarica estiva, utile a tutti per ripristinare le energie investite durante l’anno. In questi mesi di assenza mi sono molto interrogata circa le questioni che potevano risultare salienti e interessanti per voi lettori, devo dire che l’attualità, i cambiamenti sociali e generazionali ci forniscono sempre numerosi spunti di riflessione, che sicuramente saranno argomento di scrittura a partire da settembre per poter garantire il giusto spazio e tempo.
Prima di concludere però, vorrei portare alla vostra attenzione, genitori, educatori, insegnanti, nonni e tutti coloro che si interfacciano quotidianamente con i bambini un’importante questione che riguarda soprattutto alcuni di loro, in particolare, coloro i quali hanno cucito sopra di sé l’etichetta di monelli e/o cattivi. Un’etichetta che spesso viene utilizzata per definire la vivacità e l’energia che li caratterizza e che nel tempo tende a strutturarsi nei tratti comportamentali divenendo una caratteristica che li definisce a partire del loro modo di fare, tralasciando però il loro modo di essere. Si tratta di bambini che hanno fatto della loro etichetta il marchio che li contraddistingue, adoperandosi quotidianamente attraverso quelle modalità che causano loro non pochi problemi all’interno delle proprie famiglie, delle classi, dei gruppi, perché sembrano conoscere una sola modalità di entrare in relazione con l’altro, una modalità distruttiva e distanziante, una modalità che hanno imparato a sviluppare a partire dai ritorni ambientali, troppo spesso poco attenti alla sensibilità dell’interlocutore.
La stessa modalità viene rimessa in atto in ogni contesto o situazione, poiché nota e dunque in grado di poter anticipare le reazioni dell’altro, confermando inesorabilmente, quell’idea di sé che nel tempo determina come ci si percepisce e vive.
Dietro i cosiddetti “monelli” si cela una sofferenza che spesso fatica a trovare le parole per potersi esprimere, apparentemente distaccati, disinteressati, non curanti delle possibili conseguenze delle proprie azioni, covano un disagio che se non opportunamente accolto, determina spesso un futuro di insuccessi relazionali.
Ciò che fa sì che
un bambino si esprima in maniera poco funzionale e “distruttiva” è da
rintracciare nella storia personale di ognuno, e per questo poter offrire uno
spazio per poterlo guardare assicura loro la possibilità di destrutturare quel
tratto di personalità definito unicamente da ciò che causa sofferenza.
Al contempo però, sarebbe auspicabile che tutte le agenzie di socializzazione, offrano spazi di condivisione ed accoglienza affinché possano sperimentarsi in relazioni soddisfacenti e dove possano scoprire quelle risorse di cui sono detentori ma che spesso vengono occultate da queste forme di comportamento che creano una distanza spesso incolmabile. Purtroppo però accade che, in ogni passaggio o situazione collezionano insuccessi e frustrazione, per via del loro “carattere difficile e ingestibile”, vengono vissuti con disagio poiché elementi di “disturbo” in ambienti che invece, per qualche strana ragione, fanno fatica a ristrutturarsi dinanzi alle peculiarità che ogni bambino porta con sé. Ed ecco che spesso accade che vengano rifiutati, respinti, esclusi poiché troppo vivaci. Come se, vivace fosse un difetto da arginare.
Eppure essere vivace è un’incredibile risorsa.
I mesi di calma che ci accingiamo ad affrontare, possono essere utili per consentire loro di poter sperimentare situazioni ed ambienti in grado di restituire un’immagine più reale e meno costruita, per favorire l’inclusione e per potersi sperimentare in ruoli diversi, in relazioni gratificanti.
Utilissimo è il lavoro con i pari all’interno di gruppi eterogenei, dove tutti possano viversi aldilà dei pregiudizi e giudizi comportamentali, dove si possano sviluppare nuovi punti di vista, che mirino ad osservare la risorsa e il funzionamento e non solo ciò genera disagio, dove la possibilità di utilizzare un linguaggio propositivo aiuta a riconoscersi in aspetti spesso trascurati ma presenti, dove la possibilità di viversi e sentirsi apprezzati oltre ciò che si mostra, consente di scoprire delle parti di sé che spesso fanno fatica ad emergere, ma che sono tanto gratificanti.
Non è semplice, anzi un lavoro di questo genere è complesso e faticoso, perché non penalizza ma esalta, non esclude ma valorizza, è flessibile e mira all’inclusione.
Questo può essere un tempo di riflessione, un tempo di nuove esperienze, un tempo di calma dove noi adulti abbiamo la possibilità di rimetterci in gioco per garantire ai bambini che esprimono il loro disagio attraverso il loro modo di fare, una nuova possibilità ed un nuovo equilibrio… ricominciando, chiamandoli con il proprio nome e non più monelli!
Buona estate a tutti ci rivediamo a settembre!