Scatto! Dunque, sono.
Il successo del selfie solo come espressione di un narcisismo collettivo, può farci perdere il vero senso del fenomeno?
A cura della dottoressa Maria Erika Di Viesti
Psicologa clinica e della salute
Voglio aprire questo articolo con un nostalgico tuffo nel passato, quando il telefono era lo strumento grande quanto un citofono che veniva sfoggiato con orgoglio una volta aperta anche l’antenna. Quello strumento che ti serviva per mandare quel timido messaggio di buongiorno, per giunta centellinato a causa dell’offerta limitata sugli sms. Quello strumento che ti serviva per fare o ricevere quel tanto agoniato squillo che ti serviva per svoltare la giornata o farti salire le farfalle nello stomaco. Schermi privi di immagini ma ricchi di pensieri, di non detti, di fantasie, di emozioni.
Oggi quel mezzo che doveva servirci per favorire la tipologia di comunicazione è diventato insegnante di analfabetismo emotivo, dove non c’è spazio per l’immaginazione per il bombardamento di immagini in esubero, di volti, di paesaggi, di colori, di posti, di pasti. È lì, tutto ciò che cerchiamo è lì, in tutta la sua nitidezza. E più il cellulare è buono, più tu sei funzionale, più ciò che puoi far vedere ha valenza, è popolare. È il mondo del cosa vedo, dove poco importa quel che sei o cosa provavi davanti ad un piatto o ad un panorama. Dove ciò che sei è semplicemente ciò che mostri.
I selfie sono il segnale di un cambiamento importante nel modo di essere e di esserci che vale la pena di conoscere e comprendere.
Ma la domanda è: siamo di fronte ad un fenomeno nuovo o solo a un nuovo modo di esprimere l’inquietudine che non fa parte soltanto del mondo adolescenziale?
Primo comandamento dunque dell’esercito degli scatti:
io sono quello che vedi nel mio selfie.
E io, sono quello che posto aldilà di quello che faccio e tantomeno di quello che esprimo.
Secondo comandamento:
io condivido.
La condivisione del selfie non permette solo di “essere” quello che voglio far vedere nel ritratto della foto, ma anche di “esserci”, di diventare visibile alle persone intorno a me.
Terzo comandamento:
anche io devo vedere.
Attraverso i post, i selfie, anche io posso vedere quali sono i modi possibili di essere e decidere chi voglio essere.
L’abitudine allo scatto è risultata, secondo alcune ricerche, significativamente associata a due diversi tratti di personalità: l’estroversione (soggetti più socievoli ed entusiasti) e la “coscienziosità” (soggetti più cauti e capaci di controllarsi, che non agiscono d’impulso). Questi due tratti però vivono lo “scatto” in modo differente: i primi per mostrare sul palcoscenico virtuale le proprie emozioni, i secondi , più strategici, per inviare una immagine di sé pianificata.
Oltre a ipotetiche tipologie di personalità che possono nascondersi dietro ad un selfie (disfunzionali e non), vi sono anche dei paradossi.
“IO SONO NEL SELFIE MA IL SELFIE NON SONO IO”. Questo è il primo. Ma cosa vuol dire? Che il selfie non riuscirà mai a descrivere il soggetto nella sua totalità, ma sempre in piccoli particolari. C’è una “incapacità essenziale” nel selfie, ci priva di ogni elemento corporale del soggetto, del faccia a faccia, della voce, dei gesti, della postura. Il selfie mostra sì il soggetto all’altro, ma solo intuitivamente e nel modo in cui io voglio farmi vedere (se bastasse un selfie per nascondere il mio metro e sessanta!). Attraverso il selfie il soggetto viene disincarnato, l’uso è strategico: un complesso di immagini parziali e contestualizzate.
Secondo paradosso: se attraverso il selfie possiamo manipolare efficacemente la nostra identità sociale, è vero però che i nostri selfie possono modificarla anche se non lo vogliamo, attraverso ciò che appartiene a pensieri e libere interpretazioni dell’altro (reputation management). In parole povere gli altri possono liberamente utilizzare i nostri selfie nelle loro narrazioni, possono dunque avere un impatto sulla nostra soggettività.
Infine, benvenuti al terzo paradosso: l’identità fluida, cioè a costruzione di qualcosa di flessibile ma precario, mutevole ma incerto, il che – ahi ahi – diventerebbe un bel problema per un adolescente che si sta costruendo una identità.
Ho voluto trattare questa tematica in breve, in piccoli e incisivi punti (perché davvero di spazio per questo argomento ne servirebbe tanto e tanto e tanto altro avendo così grande impatto ed importanza nell’attualità) per fare un tuffo nella realtà offline, illustrando cosa si può celare in breve dietro un innocente scatto messo alla mercè di un palcoscenico vasto e incontrollato.
La possibilità di sperimentare ruoli e identità è un aspetto importante all’interno dello sviluppo individuale che resta significativo nel tempo sino all’età adulta. La psicologia sociale sottolinea come una vita di successo richieda qualcosa di molto più impegnativo ed elaborato, l’acquisizione della gestione di svariati ruoli (studente, figlio, marito, volontario, professionista, madre, padre, volontario, fidanzato, fidanzata….).
Capire chi siamo e riuscire a diventarlo. Diventare, non solo fuori, ma anche dentro, diventando progressivamente consapevoli delle proprie caratteristiche individuali e della posizione che si vuole occupare all’interno di una società.
Genitori, aiutate i vostri figli a diventare consapevoli di rischi e opportunità.
Ragazzi, abbiate cura di essere.