Generazione Covid: come l’impatto della pandemia ha influito sullo sviluppo dei nostri bambini
A cura della dottoressa Maria Erika Di Viesti
Psicologa clinica e della salute
Formata in Psicodiagnostica clinica e forense e Neuropsicologia clinica e riabilitativa
Mi trovo spesso ad interfacciarmi con genitori preoccupati per quella che è l’evoluzione dei propri bambini, partendo ad esempio da quello che è lo sviluppo del linguaggio a quello che può essere l’aspetto più prettamente comportamentale (bambini molto capricciosi, bambini molto chiusi, bimbi particolarmente oppositivi ecc….). Innanzitutto, non facciamoci prendere dal panico e non cerchiamo una diagnosi o un disturbo per ogni atteggiamento che vediamo in nostro figlio che non sia conforme o “al passo” con gli altri.
Sento più diagnosi di quante realmente io ne faccia, credetemi!
Cari genitori, dobbiamo stare un po’ più sereni. È vero che le tappe dello sviluppo seguono alcuni step e obiettivi da raggiungere in una determinata fascia di tempo, ma spesso e anche volentieri non è cosi. Perdiamo un po’ la soggettività di nostro figlio, e di conseguenza il contesto ambientale e sociale di cui il bambino fa e ha fatto parte.
Oggi appunto voglio parlare di quelli che io definisco “i figli del Covid”, e cioè di quei bambini che sono nati o hanno dovuto attraversare le fasi più determinanti del loro sviluppo nel periodo che ci ha visti vittime e protagonisti della pandemia.
Dal momento in cui il bimbo non guarda più i visi in maniera sfocata, al momento in cui comincia a strisciare a terra per muoversi, al momento in cui comincia a denominare gli oggetti o almeno a lallare le prime sillabe, al momento in cui comincia a sorridere e a percepire dunque gli stimoli ambientali con una coloritura emotiva, ecco… tutti questi momenti hanno, chi più chi meno, subito delle modifiche, perché essendo noi la perfetta combo di fattori biopsicosociali, qualche pezzo di questi ha traballato un po’. Abbiamo traballato noi adulti, quasi completi (… si racconta!) di quegli strumenti fondamentali utili ad affrontare il mondo, figuriamoci un bambino a cui è spettato l’arduo compito di evolversi in un mondo che si era fermato, che aveva appunto smesso di avanzare. Quante giovani famiglie durante il lockdown si sono sentite sole e spaesate perché mancava l’interazione sociale, il sostegno esterno, la condivisione emotiva anche semplicemente di una gioia, di un momento così spaventoso e importante quale può essere la nascita di un primo figlio. Così come è successo a noi, anche il bambino ha necessità di interazioni, di relazionarsi con stimoli nuovi e diversi. Ha bisogno dell’imprevisto, ha bisogno di toni diversi di voce. Ha anche bisogno di stare fuori da confini dove si sente iperprotetto per gestire o per imparare a riconoscere i propri sentimenti, quelli che fanno anche male come la tristezza, la rabbia, la frustrazione.
Immaginate come tutto questo di cui vi sto parlando sia stato chiuso in una bolla. Ovviamente non c’è generalizzazione, ma sicuramente c’è una buona fetta di genitori che leggendo si sta ponendo delle domande, o sta rievocando degli episodi, o semplicemente sta riflettendo.
Anche lo stress vissuto dal genitore stesso, in gravidanza o nella fase post-parto può involontariamente aver influito sullo sviluppo cognitivo, motorio, linguistico e comportamentale del bambino.
La combo di tutti questi fattori insorti in un periodo difficile come quello che abbiamo attraversato durante il Covid insomma, ha sicuramente fatto sì che i nostri bambini non godessero di quelle normali fasi dello sviluppo che esistono da manuale, o semplicemente da quotidineità.
Sono stati condotti degli studi rispetto a questa tematica. Ad esempio vi sono stati dei ricercatori che hanno testato le capacità cognitive di oltre 600 bambini di età compresa fra tre mesi e tre anni, inclusi 39 bambini nati durante la pandemia.
I punteggi ottenuti nei test per valutare i primi apprendimenti (capacità motorie come stare in piedi e camminare, linguaggio, problem solving) sono apparsi in calo nel 2020 e 2021 (Deoni, S. C. L. et al.) .
Altre ricerche invece hanno trovato associazioni simili tra lo stress pandemico prenatale e lo sviluppo del bambino. Livio Provenzi, psicologo della Fondazione IRCCS Mondino di Pavia, in Italia, e colleghi hanno osservato che i bambini di tre mesi figli di donne che hanno riferito più stress e ansia durante la gravidanza avevano più problemi a regolare le loro emozioni e l’attenzione – facevano più fatica a mantenere l’attenzione su stimoli sociali, per esempio, ed era più difficile tranquillizzarli – rispetto ai bambini nati da donne meno stressate e ansiose durante la gravidanza.
Come possiamo notare sono molti i fattori da prendere in analisi che avrebbero potuto apportare variazioni nello sviluppo di un bambino durante la pandemia, tante le ricerche effettuate e tante ancora le domande.
Vero è comunque che ad oggi è più frequente che un bimbo a tre anni non parli proprio bene o che sia molto timido o che abbia un comportamento molto iperattivo (mi raccomando genitori, ripeto: a meno che non sia davvero necessario non cerchiamo sintomi e diagnosi dei figli su Google… che succede un pastrocchio e vi sale l’ansia!). A volte bisogna semplicemente conoscere il proprio bambino, assicurarsi di dedicargli il giusto tempo e dargli le giuste attenzioni… ed anche regole!
E soprattutto, concedergli i suoi di tempi.
Non i nostri, non quelli scritti sul manuale e non quelli che pretende la società. Ogni bambino è unico e va incanalato sulla strada della crescita sulla base di quello che è e di quello che può dare, nel rispetto dei suoi tempi, dei suoi strumenti e del suo carattere. La pandemia avrà anche rallentato l’apprendimento di alcune funzioni, ma noi dobbiamo imparare l’arte della pazienta, quella che per crescere si avvale del tempo che ci si dà e che, in questo caso, gli si deve dare.
Alle volte non bisogna cercare il problema, o la diagnosi. A volte bisogna semplicemente imparare a proteggerci dalle paure associate alla cosa più preziosa che si possa mai possedere: un figlio.