Il mito della madre
A cura della dottoressa Pamela Longo
Psicologa e Psicoterapeuta
Diventare genitori è un complesso compito evolutivo che sollecita numerose emozioni e sentimenti, spesso associati ad una connotazione positiva che rarissime volte lascia spazio, almeno a livello sociale, all’espressione della paura, della rabbia, della tristezza come se questo genere di vissuto non fosse ammesso nell’ampio corollario dell’essere madre e padre.
Eppure il lungo percorso che da coppia porta ad essere genitori, o a non esserlo, è ricco di insidie, ostacoli e non è esente da quelle emozioni che spesso non vengono evidenziate perché “non ammissibili” in presenza di un evento che per antonomasia è straordinario. Laddove, solo provate e quasi mai verbalizzate, sono in grado di suscitare, in particolar modo nelle madri, un fortissimo senso di colpa anche solo per aver pensato o immaginato ciò che una madre non “dovrebbe” immaginare o pensare.
Questo fenomeno si evidenzia fin da subito, quando si sceglie o meno di diventare madre, quando è possibile o meno portare avanti una gravidanza, laddove nel primo caso la mancata voglia di rivestire questo ruolo suscita dissenso, mentre nel secondo l’impossibilità ad esserlo sollecita il senso di impotenza, e comunque vada il vissuto di inadeguatezza rispetto a ciò che “dovrebbe essere” è sempre lì in agguato.
Quandanche una donna abbia scelto di diventare madre e sia nelle condizioni per poterlo essere, durante la gravidanza nascono nuove difficoltà circa il decorso più o meno complicato da condizioni fisiche, mediche, lavorative e sociali, che in un caso o nell’altro risentono del giudizio personale e sociale nei riguardi della gestante, che già si trova ad affrontare un profondo cambiamento ormonale, fisico e cognitivo, che non è necessariamente vissuto con entusiasmo e gioia, eppure pare non esservi spazio per comunicare la tristezza e la rabbia verso la mancata accettazione del corpo che cambia e che è “dolorante”, non c’è spazio per la paura del parto, “l’hanno fatto tutti”, non c’è spazio per il timore dell’incontro con il neonato, un incontro al buio, e che come tale spaventa, non c’è spazio e nel qual caso ci fosse intervengono spesso commenti “rassicuranti” a tacitare quelle paure che non sono esprimibili.
Il tutto prosegue con il parto se naturale o cesareo, se l’allattamento è al seno o in formula, se il bambino dorme o urla tutta la notte, se ha un rallentamento della crescita, se ha il culetto rosso, con l’ingresso al nido, poi alla materna e alla primaria e via discorrendo..
Come se tutto questo dipendesse esclusivamente dalla madre, la quale, se tutto è proceduto abbastanza bene è stata fortunata, ma se per caso una o più di una delle cose sopraelencate ad esempio non fosse andata nel verso giusto, risulta ai propri occhi e a quelli di chi osserva come inadeguata ed incapace.
Sempre più frequentemente, viene sponsorizzato il concetto di ignorare quegli sguardi che spesso diventano parole, che certamente rappresenta la condizione fondamentale per prendersi cura di sé e dei propri figli, tuttavia diventa invalidante quando il giudizio di chi circonda la madre, spesso figure di riferimento, collude con il senso di inadeguatezza che la madre prova verso di sé e verso il proprio operato.
Senso di inadeguatezza che spesso deriva dall’idealizzazione della figura materna, che si dedica in maniera esclusiva ai propri figli, amandoli incondizionatamente al disopra di ogni cosa, sacrificando ed abdicando completamente a sé stessa in favore del nuovo nato.
Senso di inadeguatezza che deriva dall’idealizzazione dell’operato di una madre, la quale sa sempre cosa è giusto fare, instancabile, non sbaglia mai, ha un comportamento giusto e irreprensibile.
Una sorta di essere mitologico, che tende alla perfezione, ma che si scontra, direi per fortuna, con le madri reali, quelle che soffrono che si perdono, che desiderano e non sono solo al servizio del bisogno del bambino, che talvolta provano a prendersi uno spazio “sacrificando” il tempo con i propri figli, quelle che piangono, che urlano, che sono stanche, quelle che desiderano proseguire la propria carriera faticosamente guadagnata, quelle che di perfetto non hanno nulla ma che amano pur non perdendo sé stesse, quelle che riconoscono i propri limiti e non li nascondono, quelle “sufficientemente buone” che non ambiscono alla perfezione ma all’autenticità dell’essere madre. Una madre è un modello, non un idolo, una madre libera è colei che si concede di poter vivere l’emozioni che prova senza censurarne alcuna, vive la maternità non dimenticando l’amor proprio, riconoscendosi spazi propri, vivendo in relazione con i propri figli seguendo la propria personalità e non i manuali del buon genitore, che certamente possono essere un efficace supporto alla comprensione, ma che non possono sostituirsi mai all’individualità ed unicità di quel genitore in relazione al proprio figlio.
Una madre “sufficientemente buona” non si nega l’”errore”, lo accetta e ne fa motivo di accettazione, comprensione, lo usa per rimettersi in gioco, non si nega a sé stessa, perché l’amore è libertà di esserci ed essere, senza condizioni e senza giudizio.